STORIA DI UNA VEDOVA di Joyce Carol Oates

pubblicato da: Mirna - 9 Marzo, 2014 @ 10:23 am

Sapevo che una delle mie scrittrici preferite era rimasta vedova da alcuni anni e che naturalmente da scrittrice proilifica avrebbe scritto del suo lutto. Per salvarsi. Per confortarsi. Per capire.

Come potevo non leggere questo suo memoir, io che sono vedova da quasi dieci anni,  – esattamente dal 12 aprile 2004 -e che sento e sentirò  sempre  il vuoto lasciato dal mio amato compagno?

Quasi 600 pagine di elaborazione del lutto, ma la Oates fa del suo dolore  un racconto epico.

Non mi  sono spaventata  immaginando ciò che la vedova  avrebbe scritto. Tutte coloro che hanno perso il marito hanno percorso i taglienti sentieri dell’incredulità, del senso di colpa, dell’ineluttabilità della vita, dell’accettazione.

Il marito di Joyce, Raymond Smith, noto scrittore ed editore di una rivista letteraria, ha già 78 anni, ma questo non ha importanza. Lui è il suo amato marito, compagno, sponda a cui affidarsi. E’ persino in buona forma. Ma una complicazione dopo una polmonite lo farà morire improvvisamente.

Raymond e Joyce, intellettuali, si sono conosciuti all’Università. Lei ha appena ventun’anni, lui una decina di più. Si sposano, non hanno figli, la loro vita è serena, complice, ricca, gratificante, sicura, benchè ognuno mantenga un certo riserbo sul proprio passato.

Joyce è un donnino minuto, è una persona sensibilissima e intelligente,  adora scrivere e trova in Raymond la spalla, la completezza della sua vita.

Alla sua morte  sembra disintegrarsi.

La corsa all’ospedale ancor piena di speranza per poi trovare invece la tragedia della sua vita.

Ricordi personali simili dello strazio ospedaliero.

Condivisione con la scrittrice della necessità a  rintanarsi in un angolo per soffrire,  l’implacabile décor delle visite molto spesso inopportune. Ricordo una conoscente che arrivò appena seppe della morte di mio marito con un uovo di Pasqua (certamente per mandare il messaggio cristiano della rinascita  –  era il lunedì di Pasqua –  ) ma che mi destabilizzò  profondamente- io, distrutta mi ero ripiegata nel mio letto con dei sonniferi ).

I riti celebrativi del lutto della nostra civiltà mi trova concorde con la Oates. Perchè non lasciare per un momento il dolore puro avvincerci? Il dolore è ancora parte della persona scomparsa.  Non bisognerebbe contaminarlo.

I primi tre mesi  –  oh il tempo come è necessario – come il primo anno , cioè lo svolgersi delle quattro stagioni – sono un percorso irto di se… se… se…se avessi capito prima di che cosa soffriva, se non lo avessimo portato al pronto soccorso, se avessimo parlato di più di questa ospedalizzazione.

E poi lui c’è ancora… dopo una notte abbracciato con me… e poi non è più.

C’è il dolore egoistico di chi rimane sola, di chi resta;  lui, il tuo uomo, il tuo compagno, colui che ti lascia (e lo incolpi di questo) non prova ciò che provi tu.  Lui non sapeva ciò che sarebbe accaduto. “Non ha sperimentato quella perdita di significato che tu – sopravvissuta – avverti: si sentiva investito, pervaso del significato che tu gli hai sempre dato, e non ha mai smesso di amarti, neppure per un solo momento dell’esistenza trascorsa al tuo fianco:  Per tu0 martito, la morte non ha rappresentato una tragedia, bensì un completamento”

Ray continua a chiamare Joyce “tesoro”, come sempre. Piero era orgoglioso che facessi cose estremamente intime sul suo corpo di malato, diceva “se mia sorella ti vedesse“, e mi diceva inspiegabilmente che sembravo “Ginevra”.

Joyce torna nella sua casa vuota, non ha la consolazione e il conforto di una figlia, ma quello di due gatti che però amavano soprattutto Ray.  “Un respiro alla volta” le scrive una cara amica. “un giorno alla volta”. E’ così che la vedova  di un marito amato cerca di non soccombere.

I capitoletti in cui questo “pellegrinaggio” nel dolore è diviso,  ricordano le poesie che io durante i primi mesi della sua assenza scrivevo seduta sul pavimento. “Dead woman walking” ricorda la mia “donna automa”, perchè è così che ci si sente nei primi mesi.

E così Joyce fa ricorso a pillole, a sforzi inauditi per vedere amici, a riprendere il lavoro. Lavoro che salva. L’insegnamento soprattutto. Perchè insegnare è spostare l’attenzione su altri, è solidarietà. Insegnare è un atto di comunicazione, di comprensione, è un modo per far sì che il prossimo entri nella solitudine della tua anima.

E se per Joyce il suo corso di scrittura creativa la aiuta, per me la classe della terza D ( con Luigi) mi ha aiutato moltissimo.

Una mia collega mi disse: Aspetta il cambio delle stagioni e crea nuovi ricordi. E così con fatica feci. Un viaggio in Irlanda, in modo che la successiva estate ricordassi  cielo e mare di Dublino e non solo ciò che facevo con mio marito.

E così fa Joyce. Perchè il senso della vita che crede di aver perso è proprio nella vita.

Dedicato a tutte le mie care amiche vedove e alle lettrici attente.

 

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7 commenti
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  1. Un sussulto nel vedere il tuo post di oggi, cara Mirna, e le lacrime agli occhi. Te lo assicuro. Conosco l’intensità del tuo sentire, ricordo i giorni, mesi, anni in cui preferivi coltivare in te quel dolore e lo capivo: era prolungare la vicinanza, tenere stretto stretto il tuo amatissimo Piero. E poi piano piano, molto lentamente, molto delicatamente, la tua vedovanza ha cominciato ad aprire qualche finestra e ti sei affacciata alle frequentazioni, hai ripreso gradualmente a partecipare agli incontri amicali. Ma penso che proprio da sola con se stessa una donna possa vivere intimamente il rapporto col proprio grande amore perduto. Le consolazioni dall’esterno, pur ispirate dalle migliori intenzioni, forse rischiano di avere il sapore di sovrastrutture.
    Ci sono momenti in cui solo dentro di noi troviamo una certa forza e allora può anche darsi che si scopra di essere più forti di quanto si pensava. Ecco: è saltato fuori il mio ottimismo…
    Ma resta il fatto che perdere il compagno / la compagna della propria vita sia una mutilazione atroce.

  2. Essere capaci di trasmettere agli altri non solo con le parole la propria esperienza è un grande dono, soprattutto quella del dolore della perdita, in questo caso del compagno della vita.
    Ti ho conosciuta, quando Piero era andato via, ma ho intravisto in te una persona da cui traspariva la maliconia, unita alla certezza di essere stata molto amata.

  3. Bello questo post Mirna cara… Ti ho conosciuta in quel periodo e ti ho subito sentita molto vicina… e ci mancavi a scuola , tanto ,ma era giusto che ti prendessi lo spazio per il tuo dolore che non va mai negato.Il dolore va elaborato e ci vuole tempo, ognuno lo fa a modo suo. La scrittura è un mezzo potente, anche Barnes in Livelli di vita parla della perdita della moglia amatissima, te lo consiglio. Mi ha colpito molto. Bella la foto che hai postato. Due bellissimi sorrisi uniti un grande Amore. Un abbraccio

  4. Carissima prof, sebbene siano già passati dieci anni, ricordo ancora molto bene quel periodo (eravamo ancora in seconda, ed avevamo cominciato a conoscerci meglio dopo il primo anno nel quale ci insegnava solamente italiano, in quanto passavamo insieme anche le ore per storia e geografia).
    Ricordo che di colpo non capimmo bene il perchè della sua assenza, dopo girò la notizia e attendemmo il suo ritorno, impazienti di rivederla (il povero supplente ne passò di cotte e di crude…).
    Ad essere sincero non ricordo molto del post-rientro: ricordo che quando sapemmo che sarebbe tornata l’aspettammo alla porta per festeggiarla, contenti di averla di nuovo fra noi.
    Sono contento che dopo questi anni si ricordi ancora della “mitica” D, e sono ancor più contento che questa nostra amicizia abbia superato l’ostacolo degli anni!
    Un carissimo saluto prof!

  5. Scrivere dei propri lutti, dei propri dolori personali senza il magico filtro della creazione letteraria è sempre un rischio : cadere dalla regola dell’arte all’esibizione del dolore che non diventa “rappresentazione” ma pubblicizzazione di qualcosa di assolutamente intimo e segreto e “indicibile” che dovrebbe rimanere nascosto nel piccolo ambito intatto e puro del proprio vissuto. In questi anni va di moda parlare al mondo intero del proprio strazio, farne una specie di comunicazione pubblica (spesso con un tornaconto anche personale visto il successone commerciale dei Gramellini,delle Bignardi nostrani o del mostro sacro Didion , ecc.)Ora ci si mette anche J. Carol Oates . dopo tanti magnifici libri, tutti pieni di letteratura….A meno che non si abbia la capacità e la volontà poetica e, appunto, immaginifica e letteraria di julian Barnes che, con LIVELLI DI VITA, racconta una specie di fiaba, dove c’è il grande dolore , trasmutato nelle allegoria degli aerostati, delle storie delle vite e degli amori, delle possibilità di ognuno di vivere i momenti più bui della propria esistenza illuminandoli, appunto, con l’arte di saper vivere, di saper morire e di saper soffrire la morte stando lontano dalle facili e ripetitive commozioni che sono sempre inadeguate . Credo.

  6. La Oates scrive proprio con sublime profondità a poesia e con lei non si corrono rischi. Non leggerei Gramellini e la Bignardi . Leggerò Livelli di vita, ma consiglio anche di leggere la Oates per chi ama una letteratura che trascende la realtà personale del proprio lutto per approdare all’universale.
    Come fanno i grandi scrittori.

  7. L’approccio di ciascuno al dolore – e alla perdita – è talmente personale e soggettivo che non si può minimamente ricondurre ad un qualsiasi schema, anche il modo di scriverne è, per nostra fortuna, talmente variegato che ognuno può scegliere fra punti di vista e autori.
    A me è tornata in mente Anne Tyler di “Guida rapida agli addii”, dell’editore Guanda, letto un paio di anni fa. Anche dalla Tyler si impara come sopportare i dolori dell’esistenza, anche lei ha perso il marito; nel romanzo trasferisce le sue emozioni su Aaron – editore di guide, balbettante e claudicante – che ha appena perso la moglie e se la vede ritornare come fantasma.
    Con lui, guidati dalla divertente ironia dell’autrice, che tratteggia gesti e pensieri, apprendiamo a gestire e a superare le prove che ci offre la vita, ad esempio dividendo le più complicate: “basta suddividerle in parti abbastanza piccole” e ad avventurarci di nuovo fra gli altri, lasciando i fantasmi…