BLUE NIGHTS di Joan Didion

pubblicato da: Mirna - 24 Marzo, 2012 @ 8:25 am

Racconto autobiografico molto crudo.

Non ero decisa se terminarlo o meno  quando ho  iniziato a leggere  di vecchiaia e di lutti.

 Ma certi pensieri sono così profondi e toccanti che mi hanno spinto avanti, tutto d’un fiato.

Il libro è dedicato a  Quintana Roo la figlia adottiva dell’autrice morta prematuramente. Una figlia che sentiva sulla sua pelle il timore dell’abbandono pur se avvolta da amore.

Una bambina maturata in fretta e con le stimmate della fragilità psicologica, della paura di perdersi nel nulla.

Ed ora è la madre settancinquenne  che rimasta sola fa i conti sia  con la malattia, i timori e con una cocente rielaborazione del lutto e della sua vita.

Riaffiorarno lontani ricordi del tempo della giovinezza e della vita piena, di Quintana bambina, di Quintana infelice. Immagni delle varie abitazioni a Malibu, dei ciclamini del Madagascar,  di Quintana dai capelli schiariti dal sole della California  quando corre giù dalla collina con la divisa della scuola e il padre chiama la madre affinchè essa non perda quell’immagine tenerissima della bambina.

E le scarpe bianche dalle suole rosse che Quintana indossa per il suo matrimonio.

Joan Didion non ci regala però  molte illusioni,  sembra incidere con il bisturi la sua incapacità di affrontare le certezze della vecchiaia e della morte.

Un libro duro, scritto con frasi che talvolta sembrano appunti di una sceneggiatrice come in realtà è stata Joan Didion.  Ma  i suoi ricordi che vorrebbe non ricordare e i suoi pensieri si ergono forti come su un traliccio d’acciaio.

Racconto catartico, sincero, dove viene confessato sia il suo temuto  senso di inadeguatezza come madre sia la sua sensazione di estrema fragilità.

Per ogni cosa c’è una stagione ci dice Joan Didion e , come nell’alternarsi delle stagioni a New York , dove ora vive,

l’arrivo dell’autunno con l’inesorabile caduta delle foglie, il progressivo rabbuiarsi dei giorni…suggeriscono la morte stessa.

Come c’è la breve stagione delle notti azzurre, le blue nights, “quell’arco di tempo che a certe latitudini precede e segue il solstizio d’estate, poche settimanre appena, in cui il crepuscolo diventa lungo e azzurro…cominci a notarlo quando aprile finisce e inizia maggio…l’estate sembra vicina, una possibilità meglio una promessa…Durante il periodo delle notti azzurre pensi che la fine del  giorno non arriverà mai…”

 Ma esso arriva ed  in queste pagine ascoltiamo il lucido e consapevole dolore di una donna sola e ferita.

Per lettori forti.

Edizioni Il saggiatore

Joan Dillon è l’autrice  de L’anno del pensiero magico  da cui è sttato tratto un monologo portato sulle scene da Vanessa Redgrave.

 

 

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9 commenti
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  1. Memory …
    Memory. All alone in the moonlight
    I can smile at the old days
    I was beautiful then.
    I remember the time I knew what happiness was.
    Let the memory live again.
    Anche in questa strofa della canzone tratta da “Cats” si ricordano bei tempi andati, la giovinezza. Ma per i gatti del musical la notte non è blue, cioè triste, perchè vince la speranza di un giorno nuovo.
    E così sia per tutti quelli che hanno un familiare sincero (occorre spcificare …!) o un amico sincero … (anche qui, specificando!)

  2. Ricordando GIRO DI VITE e i fantasmi interiorizzati
    Un mio post pubblicato il 28 dicembre, 2010
    Eppure nella nostra anima ci sono delle zone buie, dei recessi del nostro rimosso che ci possono incutere paura, ma anche meraviglia e persino piacere perchè ci portano nel “viaggio” dentro noi stessi e ci conducono alla scoperta degli strani legami che irrazionalmente noi instauriamo con la natura circostante, le abitazioni della nostra vita e con alcuni oggetti che fan parte del nostro vissuto quotidiano.

    Talvolta quando sono sola e con la “ragione” allentata mi sento scivolare accanto ombre e sento nello spazio, che mi sembra vuoto, fremiti vitali.

    Capita anche a voi?

    Ripenso a “Eclisse” di Banville e ai fantasmi che egli vede all’improvviso nella passeggiata solitaria tra i campi e alla madre con bambino che appare spesso nella casa dei genitori.

    “Giro di vite“- The Turn of the Screw -, è esemplare nello scandagliare inquietudini interiori, misteri inspiegabili ma quasi attesi.

    Giro di vite venne scritto in un momento difficile della vita di Henry James, un periodo lavorativo pieno di incertezze e di delusioni. Forse lo scrisse perchè le storie di fantasmi sempre attirano i Lettori, ma la sua perfezione strutturale e contenutistica ci rivelano un’esigenza, una speranza, un timore e il disagio dell’insondabile. Il nostro Doppio, la nostra Piccolezza, il nostro non sapere tutto si accoppia con il nostro reale e il nostro immaginario.

    In James più che convincere il Lettore dell’esistenza dei fantasmi di Quint e della Jessel c’è l’intenzione di dimostrare la consistenza “concreta” dell’esistenza dei due domestici defunti, e di descrivere il modo in cui l’istitutrice e i due bambini percepiscono, e poi reagiscono, a questa esperienza.

    E’ un racconto gotico la cui genesi è da attribuirsi a una storia di fantasmi che fu narrata allo scrittore dall’Arcivescovo di Canterbury la notte del dieci gennaio 1895. James ne parla nei suoi Taccuini. E’ la storia di due bambini orfani, ma che vivono in una dimora di campagna sotto la tutela di uno zio che però vive lontano da loro. Prima dell’arrivo della nuova governante erano accuditi da un’altra signora e da due domestici perfidi e depravati che nel romanzo di James sono chiamati la signora Jessel e Quint, il suo amante dai capelli rossi.

    La prima governante e i malvagi domestici muoiono, ma le loro figure tornano a infestare la casa e sembrano far cenni e ambigui inviti ai bambini.

    Sono quindi soltanto i due bambini, piccole prede del Male e la giovane governante, Miss Giddens, che tiene un diario, a vedere le due sinistre figure.

    James fa di questo racconto orale una magistrale novella in cui nell’atmosfera quasi pastorale e luminosa della casa di campagna inglese si insinua una vaga atmosfera malefica, non percepita da tutti gli abitanti della casa . Non scende in dettagli particolareggiati ma ricrea perfettamente quel “clima mentale” provato dall’istitutrice, quasi un sinistro strato di “trance”, o forse come alternativa interpretazione, una proiezione “isterica” dei desideri erotici inconsci di Miss Giddens stessa.

    E’ l’istitutrice che tempo dopo narrerà a sbigottiti ascoltatori l’esperienza accuratamente annotata nel suo diario. Ed è proprio lei che, volendo “stringere la vite “per arrivare a capire il mistero, forse scoprirà una sorta di complicità dei bambini con i malvagi spettri. E Miles – il fratellino – diventerà un’altra vittima designata.

    Pur allacciandosi ai racconti gotici così di moda, persino un po’ a Jane Eyre, James se ne differenzia perchè ci offre un terrore psicologico che nasce dalla mente del narratore dilatandosi infine in quella del Lettore.

    Scrive James a proposito:

    “Lo straordinario è tanto più straordinario in quanto accade a voi e a me, ed ha valore (valore per gli altri) solo in quanto visibilmente sentito da noi”

    E Virginia Woolf nel suo articolo “Henry James’s Ghost Stories ” sottolinea che i fantasmi di James incutono paura non perchè trascinano catene arrugginite oppure perchè vanno in giro con la testa decapitata in mano bensì perchè ” hanno la loro origine in noi.”

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  3. GENOVA E GIORGIO CAPRONI
    Se Trieste azzurra e ventosa, per me, rappresenta la soglia per partire in orizzontale verso un “Pellegrinaggio in Oriente”, cioè verso un infinito sconosciuto e, come scrive Hesse, verso un’altra dimensione, Genova è il salire e lo scendere dentro di me. Più leggera Trieste in cui mi sento “zingara”e pronta ad un’altra realtà dalla mia realtà. Più faticosa e intensa Genova che è la città conosciuta insieme al mio amore. Città circoscritta ormai nella mia storia e verso la quale porgo ancora resistenza per non affondare nella nostalgia.

    Città fatta di vicoli e di salite come la mia memoria. “Con le sue salite, le sue rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le sue funiculari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è infatti una città tutta verticale: Verticale e quindi, almeno per me, lirica, se non addirittura onirica” scrive Giorgio Caproni che seppur nato a Livorno si è sempre sentito genovese, essendosi trasferito nel capolugo ligure a 1o anni.

    E genovese si sente la mia amica del mare, Renata, che mi ha regalato questo bellissimo libro con Tutte le poesie “genovesi” di Giorgio Caproni. Ogni tanto al telefono mi dice “Vedo le navi andare sul mare” oppure “Sono davanti ad un’antica chiesa sotto la luna”….ed io la invidio e le ribatto che ho sempre e solo il condominio grigio davanti a me. E penso che se fossi là scriverei tanti versi in più.

    “Qui forse potrei vivere, / potrei forse anche scrivere: / potrei perfino dire: qui è gentile morire /

    Genova mia città fina: / ardesia e ghiaia marina. / Mare e ragazze chiare / con fresche collane di vetro / (ragazze voltate indietro, / col fiasco, sul portone / prima di rincasare…/ scrive Caproni.

    Ho “conosciuto” Genova quando mi imbarcai per la mia prima crociera come hostess. Subito conobbi il mio futuro marito, il pianista di bordo che una sera, rimasti soli con qualche amico dell’equipaggio, si mise al pianoforte e mi cantò “Ma se ghe pensu…alua mi vedo u maa…vedo a lanterna…”. Mi colse uno struggimento intenso e mi innamorai di lui, del mare, di Genova.

    “La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, sul porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale /di lamiera dei tetti…

    E il vecchio porto divenne per me e mio marito il punto d’incontro quando navigavamo divisi… lui arrivava ed io l’attendevo sul molo, o viceversa, io a prua che lo cercavo tra la folla, con emozione, e mi sentivo come la “Donna che apre riviere“

    Sei donna di marine, / donna che apre riviere, / L’aria delle mattine /bianca, è la tua aria / di sale – e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare.”

    Ma Genova più tardi ha significato anche gli incontri con i cari amici, il pesce mangiato a Caricamento dopo i miei esami universitari andati bene, la visita all’Acquario con Stefania, le passeggiate ad Albàro, dove soggiornarono Dickens e Byron. In “Tutte le poesie genovesi” di Giorgio Caproni ne troviamo anche una intitolata “Albàro”

    Se al crepuscolo, almeno, / ci fosse, dietro i vetri, il mare…/ Amore…/ Tremore /in trasparenza…/Se almeno /questo fosse il rumore / del mare…/ Non / lo sopporto più il rumore /della storia…/ Vento / afono…/Glissando…/ Sparire /come il giorno che muore / dietro i vetri…/ Il mare…/ Il mare in luogo della storia…/Oh, amore.

    Mio marito quando le prime volte mi portava in giro per Genova mi spiegava della particolarità dei suoi abitanti, delle donne forti che riuscivano a stare in piedi sui tram traballanti, dei “camalli” del porto, della focaccia che si mangiava per strada e mi faceva notare l’odore dell’aria, un misto di catrame, di jodio, di salsedine…

    Scrive Caproni :”Questo odore marino / che mi rammenta tanto/ i tuoi capelli, al primo / chiareggiato mattino./ Negli occhi ho il sole fresco / del primo mattino . Il sale / del mare../ Insieme/ come fumo d’un vino, / ci inebriava, questo / odore marino/ Sul petto ho ancora il sale / d’ostrica del primo mattino.

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  4. Ho appena appreso della scomparsa di Tabucchi. Sostiene Pereira e Notturno Indiano sono libri che hanno lasciato un segno così profondo in me, soprattutto il secondo, che Tabucchi lo ho sempre considerato quasi un “amico”. E’ lui inoltre che ha fatto conoscere Pessoa in Italia. Ecco, un alto autore che mi mancherà, ci mancherà…
    Oggi ho acquistato all’Ubik , aperta di domenica ( ci sono andata per scacciare un pò lo spleen di questi giorni, sono un pò come Mimilla , vediMirna!!!) due libri . Uno di Boll , Opinioni di un clown ( purtroppo nn ho mai letto nulla di Boll) e l’altro di Chuck Palahniuk, Lullaby ( Ninna nanna). Anche qui, come nel libro di Didion, sembra ci siano un linguaggio ed uno stile molto forti. Vi dirò…
    P,s domani corso di aggiornamento a Rovereto, niente Caffè Papiro, mi mancherete!!!

  5. @ mirna– Anni fa’, quando usci l’anno del pensiero magico di J. Didion, lessi su PALP una lunghissima monografia sull’autrice, notissima intellettuale, ammiratissima, ricca e famosissima, assieme al marito,nell’ambiente più esclusivo della cultura americana (NY). Comprai subito il libro, affascinata. Ma presto provai un senso di ripugnanza quasi fisica per quello sfruttamento estetizzante del dolore (il proprio) che diveniva merce di grande successo commerciale.Ora Didion raddoppia raccontando lo strazio della morte della figlia ,che stava già morendo durante la stesura del romanzo del pensiero magico, dove, per altro, si accenna appena alla figlia ammalata molto gravemente, visto che J .didion doveva rimanere concentrata sulla morte n.1.Sfruttare il proprio dolore per venderlo sul mercato mi dà molto fastidio. E in questi giorni abbiamo avuto l’esempio (molto triste per me) del libro di Gramellini, che è andato a piagnucolare da Fazio (e già li c’era un conflitto di interesse) dicendo che “forse” il vecchio bambino e cioè lui stesso, potrà “perdonare la madre”, per il grande torto di essersi suicidata. Non so se qualcuno coglie l’orribile ipocrisia di questo episodio. spero proprio di sì.Il giorno dopo il libro di G. è andato a ruba e continua a fare soldoni a palate.

  6. @Camilla. L’impressione che molti autori sfruttino il loro dolore per venderlo è opinione di molti. Vedi il citato Gramellini,il cui libro è tra i più venduti attualmente nelle librerie, complice naturalmente la “sacra” TV. Per altri, i grandi – e si nota la differenza – invece scriverne diventa una catarsi universale.
    E’ talmente forte in chi vuole scrivere sia il narcisismo che il desiderio di guadagno da non riuscire più a celarsi almeno dietro a un comune senso del pudore.
    Sta in noi Lettori scegliere con il nostro gusto, le nostre aspettative tra la prolificazione di libri che veramente sta giungendo a picchi vertiginosi.
    Non dicevamo proprio l’altro giorno che ci sono più scrittori che lettori?
    Ciò che mi ha convinto a continuare la lettura della Dillon è stata la sua fragilità disperata e ineluttabile tanto da farmi sperare che lei riuscisse a trovare un qualche conforto, ma non c’è riuscita.
    @Raffaella. Brava che intraprendi la conoscenza di Boll e di Palaniuk. Lo spleen è una terribile bestia nera che scivola subdolamente, ma alla UBIK ( di cui parlerò molto presto) e in altri luoghoi “sacri” pieni di libri si può avere molto conforto.
    @Emanuele: mi fa piacere che il mio post su Il giro di vite ti spingerà a leggerlo.

  7. @PATRIZIA TRAVERSO : GENOVA CHE E’ TUTTO DIRE – Immagini per la ‘Litania’ di Giorgio Caproni (Il Canneto Editore, 2011, 226 pp, 15 Eu), di Luigi Surdich e Patrizia Traverso, introduzione di Giuseppe Conte
    RICOPIO DA INTERNET

    A cent’anni dalla nascita di Giorgio Caproni, una delle sue poesie più note viene riproposta al lettore con un nuovo apparato critico e una galleria di scatti fotografici straordinari. Nessun poeta ha mai parlato di una città come Giorgio Caproni ha parlato di Genova. Caproni visse a Genova dal 1924 al 1939, cioè dai dodici ai ventisette anni, e ne scrisse per tutta la vita («la città più mia (…). Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo (…). Ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi»).

    I novanta mattoni che compongono Litania (tante sono le volte che Caproni vi nomina, quasi per ossessione, la città) costituiscono una mappa di Genova, più approfondita di una radiografia, più lucida di un sogno. Quando Patrizia Traverso ha progettato di fotografare una poesia, quella poesia, la sua impresa sembrava disperata: come poteva riuscire a raccontare, con le immagini di oggi, un monumento poetico di quella perfezione, di quella nitidezza, eretto a gloria di Genova oltre settant’anni prima? Eppure, grazie anche alla guida e alla sensibilità di Luigi Surdich massimo studioso dell’opera caproniana, la sfida è stata vinta.

    Litania è oggi un libro di immagini e parole composto da una sorprendente galleria di scatti fotografici che rende omaggio al fascino e al mistero della Genova cantata dal poeta e da sapienti testi di interpretazione della lirica di Giorgio Caproni.
    Sono convinto che Litania sia davvero una poesia “singolare e straordinaria”, come scrive Luigi Surdich nel suo saggio compreso in questo volume. La prediligo tra le poesie di Caproni, e devo cercare di capire il perché. Leggendola, vengo preso da un senso di vertigine musicale, di spaesamento ritmico che mi fa desiderare di dirla ad alta voce, e poi di lasciarla circondare da un silenzio assoluto. È una poesia in cui si va come in altalena, si sale, si cade, ci si dondola, ci si feriscono le ginocchia, ci si lascia prendere allo stomaco. Ha dei vertici metrici, degli abissi metrici. I suoi ottonari e settenari sono scanditi, sillabati. Hanno un metronomo interno. Crome e biscrome da leggere in un irto esercizio di solfeggio. Le note sono ripetute allo spasimo, hanno quell’effetto invocativo e incantatorio tipico delle litanie.

    Ma qui la preghiera è assolutamente laica, o forse, a parte quel ritmo, non vuole neppure essere preghiera. Ne viene fuori un testo enigmatico, tutto endiadi, apposizioni, contrasti folgoranti sin dall’inizio (geranio-polveriera, ferro-aria, lavagna-arenaria) e vortici di rime inattese, né lirico né narrativo, estraneo ai riti della poesia novecentesca corrente. Sarà per questo che ne subisco sempre il fascino?

    Litania l’ho letta tardi. Quando di Caproni, che avevo del tutto trascurato nella mia prima giovinezza milanese e neoavanguardista, cominciò a parlarmi Italo Calvino, facendomene dei ritratti sempre in bilico tra ammirazione e ironia, entrambe affettuose. E leggendola, rileggendola, mi sembra di rivedere la silhouette magrissima, quasi disincarnata, il volto tormentato del poeta, quell’aria da violinista stralunato, bizzarro che mi colpì le pochissime volte che lo incontrai. E ancora, leggendola e rileggendola, risillabando le tre note della parola sdrucciola con cui comincia ogni distico, regolo i miei rapporti con Genova, capitale della mia Liguria dove però non ho mai dormito più di due notti di fila, e si acuisce il mio desiderio di conoscerla, percorrerla, viverla, studiarla, capirne il segreto e il tesoro, più nascosto e antico di quello di San Lorenzo.

    Litania è la mia guida attraverso gli alti e i bassi, la luce e l’ombra, il sacro e il profano, gli odori e i colori, i suoni e il mutismo, il cielo e i grattacieli, il mare e i monumenti di questa città, anch’essa “straordinaria”.
    Il libro consacrato a Litania è un grande atto d’amore. Per Caproni. Per Genova. Luigi Surdich interroga quasi ogni distico, lo mostra nel suo processo di formazione, ne segue le concrezioni stilistiche e formali, lo colloca all’interno dell’opera caproniana, con riferimenti a raccolte come Ballo a Fontanigorda, Stanze della funicolare, Il muro della terra, e ad interviste, ad articoli, ad altre rare testimonianze. Ci fa vedere la trama di ricordi autobiografici e familiari che regge tutto il testo, con i riferimenti a Silvana e Attilio, a Rina, alla madre. Ci racconta i rapporti personali di Caproni con Sbarbaro, con Barile. Ci certifica che non ci fu mai un incontro con Montale, che pure ha un posto centrale nella linea ligure tracciata da un distico di Litania: “Genova nome barbaro. Campana Montale Sbarbaro”. E, in un pregevole excursus interpretativo sul distico “Genova di caserma. Di latteria. Di sperma” ci guida anche in particolari linguistici come la derivazione del termine caproniano “rifresco” da “refrescumme”, quell’odore un po’ nauseante che ristagnava su piatti mal lavati dopo che vi si era mangiato soprattutto delle uova. Odore che abbiamo ancora nelle narici noi che siamo nati quando il trionfo universale dei detersivi non si era ancora celebrato.

    Il lettore troverà poi una serie di foto dovute a Patrizia Traverso, per lo più in un bianco e nero molto nitido, insieme documentaristico ed evocante, crudo e arioso, e qualche volta a colori dove i colori sono espressamente richiamati nel testo poetico (così ci appare come una epifania il rosso bellissimo di un rimorchiatore). Queste foto non si limitano a illustrare i versi (anche se poi lo fanno a meraviglia), ma li interpretano, ne danno la versione per immagini, in una sequenza mai pedissequa e mai ovvia, piena di scatti musicali in sintonia con il testo.
    Un vero itinerario in una Genova che non è più quella di Caproni ma lo sembra ancora. La verticalità è suggerita da una scala su una facciata scrostata, intelligenti anacronismi ci mostrano graffiti sui muri, cartelli su cui il termine banca è scritto anche in arabo, il Matitone in diverse ore e prospettive (per me quel grattacielo è così attraente da quando ho scoperto la sua somiglianza non so se voluta, ma certo non incongrua con la torre di Galata, mio faro quando sono a Istanbul). Tra tanti scorci di case e strade e così poche, impreziosite presenze umane, trovo incantevoli le fotografie dei limoni (non di montaliani cortili, ma gloriosamente in primo piano) e delle onde in una mareggiata, tra nuvole di salino. E quegli stoccafissi che disegnano come un groppo di radici o un cespuglio di fiori marini, sono il felice equivalente visivo di certe irte volumetrie verbali della Litania.

    “Mia litania infinita”. Caproni sentiva che la rincorsa musicale di questa sua poesia poteva continuare, riprodursi. E in parte la continuò giocosamente, o forse con una affettuosa malinconia non detta, quando gli amici genovesi ne festeggiarono i settant’anni, e li volle includere in nuovi sorprendenti distici: Devoto, Verdino, Guerrini, Liliana, la moglie di Stefano.
    Questo libro, alla fine, con le sue immagini parallele, con la sua ermeneutica amorosa, è davvero il modo migliore per rileggere Litania. È vero, le sue salite non sono “spirituali”, il suo mare non è “estatico”, come Caproni stesso sottolineava pagando un debito alla cultura novecentesca dominante. Ma il lettore sente che questa vasta e irta preghiera non dichiarata, dissimulata, è ansiosa di infinito: e mette il dubbio (non a me, io lo penso dagli anni Settanta del secolo scorso) che ogni grande poesia sia a suo modo, sempre diverso, un frutto dello spirito e dell’estasi.

  8. Genova, ci sono nato. In casa non c’era il riscaldamento. Solo una stufa in cucina. Da ragazzo si utilizzava il tram. Su tutti si saliva dalla porta posteriore e si scendeva da quella anteriore. Verso la “poppa”, uno sgabellino per il bigliettaio.Tram … ve ne erano di tre tipi: I più corti, con le piattaforme anteriore e posteriore aperte, separate dal vano centrale da una porta scorrevole. All’interno, due lunghe panche, una di fronte all’altra, su ciascun lato della vettura. V’era poi il tipo intermedio, un po’ più lungo, con i sedili singoli e le porte a soffietto situate all’esterno delle due piattaforme. Infine, la “littorina”, molleggiatissima, più veloce e silenziosa degli altri modelli. Ecco il mio ricordo di Genova, 60 anni dopo:

    Ricordo di Genova

    Pensavi ad un mondo inventato
    ed alto volava il pensiero
    che prima era tuo.
    Il corpo restava seduto
    davanti ad un libro di scuola
    e dentro di te
    esplodeva la gioia
    per quella tua fuga segreta.
    Ricordi? Ti vedi?
    La penna tormenti coi denti
    di legno e l’inchiostro ti sporca le dita.
    La guardi segnare con tratti azzurrini
    la coltre di neve
    del bianco quaderno.
    Raccolto nel caldo d’un’unica stanza
    da un cielo segnato dai graffi
    dell’ombra nascente
    da piccola luce sospesa ad un filo ritorto,
    amica discende la voce
    del vecchio apparecchio sonoro.
    Conservi da giorni
    la carta stagnola del cioccolatino
    e credi che possa brillare
    da sola
    nel buio che attende silente l’evento
    appena al di fuori dell’uscio
    di questa cucina.
    Ti vesti, vai fuori.
    C’è buio in inverno, fa freddo.
    Tu, speri che piova.
    Ti piace che lavi le strade, i palazzi
    che spazzi la costa
    quell’acqua che il vento impetuoso
    solleva ancor prima
    che baci la terra.
    Ti piace vedervi riflesse
    le luci stradali ed i fari.
    Il tram è stracolmo:
    tu resti schiacciato ad un vetro
    e soffi il calore del corpo
    sui molti colori dei neon
    che adornan fuggenti il tuo finestrino.
    E dalle sbandate
    dal peso che ondeggia del corpo,
    del tram che ora scende ora sale
    conosci l’intero percorso.
    E’ tua la città che ti parla
    e suo il ricordo che scrivi.

  9. Ciao carissima Mirna! Quanto tempo……..ma ti / vi leggo sempre! Scrivo per salutare Raffaella, che sta intraprendendo la lettura di uno scrittoe che adoro – Boll (l’umlaut non so dove sia sul computer…) . Ti piacerà, ti piacerà, ti piacerà!! ( Tra l’altro, la storia con mio marito è iniziata con “Opinioni di un clown” – che gli regalai, poco tempo “prima di tutto” – in occasione di un suo viaggio a Bonn, proprio il 27 gennaio, che è appunto anche il compleanno di Alessandro…. insomma, galeotto fu Boll!!!)
    Io amo molto, oltre a Opinioni di un clown, il tristissimo “E non disse nemmeno una parola” per la figura femminile che fa da protagonista. Mi dirai ciò che ne pensi!
    Ciao a tutti e buona, anzi, ottima, lettura a Raffaella.
    Cinzia