LA MOBILITA’ IN POLITICA

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 1 Febbraio, 2020 @ 9:24 am

Detto altrimenti: essere o non essere … immutabili?    (post 3743)

Il cittadino elettore può liberamente cambiare il proprio orientamento politico. I partiti politici possono modificare i propri obiettivi. Il parlamentare agisce senza vincolo di mandato. Liberi tutti, dunque? Ma se un parlamentare cambia partito, viene definito voltagabbana, traditore del mandato ricevuto dagli elettori. Come la mettiamo?

Io ero alpinista. Sono velista. Durante le tempeste o montane o marine la prima regola da seguire è “durare”. Tradotto in politica: “esserci”: da fiume impetuoso (capo politico, parlamentare, amministratore della cosa pubblica) o da semplice goccia (persona attiva, quale io mi sforzo di essere).

Mi chiedo: occorre rimanere fedeli all’etica dei principi o all’etica dei risultati? Il mio “amico” filosofo del diritto, l’austriaco Hans Kelsen che studiai oltre mezzo secolo fa (1967) all’università di Genova per l’esame di Filosofia del Diritto (Prof. Luigi Bagolini), insegna che per valutare un concetto occorre portarlo alle sue estreme conseguenze, salvo poi ritornare sul piano della realtà. Orbene, l’esasperazione dell’ etica dei principi conduce al fanatismo; l’esasperazione dell’etica dei risultati conduce al cinismo. E allora? Vogliamo dei politici fanatici o cinici o essere noi stessi tali? No di certo.

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Infatti “Nell’azione del grande politico, etica della convinzione (circa i propri principi, n.d.r.) ed etica della responsabilità (nei confronti dei risultati che si vogliono raggiungere, n.d.r.) non possono andare disgiunte l’una dell’altra” (Weber in Norberto Bobbio, “Elogio della mitezza” pag. 65). In altre parole meno filosofiche: credo in una mia pluralità di idee; non trovo nessun partito politico che le rappresenti tutte; mi inquadro in un partito che ne condivide alcune, quelle che per me sono le più importanti; voglio comunque “esserci” per contribuire a raggiungere almeno alcuni dei miei risultati prefissati.

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Se poi vedo che all’interno di quel mio partito qualcuno vuole fare del nostro simbolo una sua proprietà personale a costo di spaccare l’unità del partito; che al suo interno sono violate regole e principi democratici (contro le regole dello Statuto, si candida chi fa parte della Commissioine elettorale, per dirne una), mi trasferisco in un altro partito (in cui opera da una persona che conosco e stimo molto) e raggiungo il compromesso fra la mia etica della convinzione e la mia etica della responsabilità dei risultati. Il mio fine (il mantenimento del massimo grado di democrazia e libertà vera e morale) può giustificare i mezzi (cambio di partito) se i fini – come nel mio caso – sono moralmente giustificati (sul rapporto fra morale e democrazia scriverò un apposito post). Rispetto a tutto quanto sopra descritto, domando: chi è il voltagabbana?

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“Simboli al potere – Politica, fiducia, speranza” Ed. Giulio Einaudi. Un piccolo ma grande (great) libro di Gistavo Zagrebelsky.  Il simbolo è fattore di unione, è di tutti coloro che ci si riconoscono. Tuttavia, se taluno, fosse pure il suo ideatore, ne vuola fare una sua proprietà privata
espropriandone gli altri e governandone i contenuti, ciò distrugge la fiducia reciproca e la speranza comune e il simbolo diventa segnale di guerra, fattore di divisione, strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate. Questo nuovo simbolo-diabolo è un diapason del potere totalitario. Peggio mi dice quando il capo è un demagogo: il popolo nel suo capo, il capo nel suo popolo. Il capo è il simbolo, cioè il simbolo-diabolo, cioè il diabolo.

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Il compromesso: Paolo Mieli, nel suo bel libro “I conti con la Storia” (Ed. Rizzoli, 2013) nelle pagine 38-48, al capitolo “Mosche e scarafaggi: quando i compromessi fanno la storia”, afferma che “Il compromesso è la cosa migliore che ci sia” e che Albert Einstein affermava che gli unici compromessi inammissibili sono quelli “sordidi”. Mieli cita poi il filosofo israeliano Avishai Margalit per il quale scacciare con la mano una mosca che si fosse  posata sull’unguento di una vostra ferita sarebbe compromesso accettabile, anzi necessario; mangiare una minestra nella quale fosse entrato uno scarafaggio, sarebbe invece uno “sporco compromesso”, quindi da rifiutare. Seguono poi alcuni esempi di compromessi virtuosi e di altri sordidi, sporchi (cfr. ivi). Nella sostanza: il compromesso, non è ipso facto da condannare. Piuttosto inviterei a distinguere bene tra le espressioni “scendere a compromessi” e “raggiungere faticosamente un compromesso”: la prima adatta ai compromessi sordidi; la seconda a quelli virtuosi, come è virtuoso il compromesso raggiunto da chi, in politica, vuole continuare ad esserci, conciliando la propria etica della convinzione sui princìpi con la propria etica della responsabilità dei risultati.

Un commento: un amico mi dice che a parer suo esisterebbe una terza categoria “etica”: l’opportunismo. Ma a parte che il termine ha un doppio significato, positivo o negativo (“è giusto, doveroso, moralmente necessario e quindi opportuno che io faccia così” – “tu sei un opportunista!”), esso comunque non rappresenta una categoria, bensì un tramite, un ponte verso un’altra sponda, uno strumento (comunque double face) per realizzare l’uno o l’altro dei due obiettivi etici di cui sopra: restare assolutamente fedele alle proprie immutabili idee di base o raggiungere comunque certi risultati. In altri termini, l’opportunista di per sè non mi spaventa: solo, devo capire dove vuole andare a parare. E qui ci risiamo: infatti se si comporta in tal modo per diventare un integralista o un cinico, allora ecco che in entrambi i casi l’opportunismo mi spaventa.