RISPEDIRLI IN INDIA O NO?

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 19 Marzo, 2013 @ 4:05 pm

Detto altrimenti: i due marò. Ospito l’opinione di www.narcolessico.wordpress.com che dice di si, di rispedirli. E voi cosa ne dite?

Inizia

Ma vi pare normale che si debba rischiare, anzi affrontare, una crisi diplomatica con l’India per evitare che due sospetti colpevoli di omicidio vengano processati là dove i fatti loro contestati sono accaduti? Con quale diritto, poi, ci lamentiamo degli Stati Uniti, che fecero in modo di riportare in patria i piloti responsabili della strage del Cermis senza dare alla giustizia italiana l’occasione di processarli?

Non mi sfugge, in qualche modo, l’orizzonte nel quale si colloca la decisione di trattenere in Italia i due Marò, evitando loro il processo indiano. Le iniziative di forza (armata o diplomatica che sia), che in politica interna sono per lo più scongiurate in favore di una tendenziale prevalenza del Diritto, possono acquistare – nell’ambito delle relazioni internazionali – una qualche legittimità e legalità. Ce lo ha insegnato, un po’ tristemente, il realismo politico di Raymond Aron (e, all’origine, di Clausewtiz), rilevando come a differenza di uno Stato, “la società internazionale sia caratterizzata dall’assenza di un’istanza che detenga il monopolio della violenza legittima”. Con questo gesto, l’Italia dovrebbe quindi affermare la propria potenza a diretto detrimento del Diritto invocato sul proprio suolo da un Paese sovrano. Un messaggio indirizzato all’India, ma anche all’opinione pubblica italiana – rincuorata, forse – da tanta italica fermezza. Un messaggio, soprattutto, confezionato a uso e consumo di chi si trovasse, nel Mondo, a dover interagire con noi.

A queste considerazioni se ne possono però opporre almeno altre due, una di profilo più ideale e una – per così dire – di ordine più tattico e pragmatico.

Da un punto di vista ideale, la prospettiva realista classica (i cui riferimenti culturali, oltre ad Aron, comprendono Edward Carr, Hans Morgenthau e Henry Kissinger) pregiudica la possibilità di una teoria generale delle Relazioni Internazionali (che Aron infatti riteneva impossibile): viene meno, cioè, la possibilità di un livello terzo in ordine al quale gestire i negoziati fra i Paesi e si riduce tutto ai loro rapporti di forza, con effetti di medio e lungo periodo potenzialmente devastanti.

Da un punto di vista tattico, bisogna chiedersi se il gioco valga la candela. Ha senso inimicarsi un Paese emergente come l’India per difendere due soldati che potrebbero essere addirittura colpevoli? Non rischiamo, soprattutto, di creare un precedente capace di gettare discredito sulla parola di tutte le nostre ambasciate e, più in generale, sull’attendibilità degli accordi presi con l’Italia?

Quando vengono meno le ragioni della propria credibilità interna, la politica può essere tentata di rivolgersi alle relazioni internazionali come all’ambito nel quale dare mostra di quell’unità d’intenti e di quella fermezza che in patria non riesce più ad esibire. Questa logica non manca di una sua contingente opportunità. Trattandosi, però, di un’opzione che non può essere ripetuta sistematicamente, occorre scegliere con molta attenzione il caso in cui procedere alla sua adozione. Deve trattarsi di un caso esemplare, suscettibile di esprimere e accreditare – al di là del caso in oggetto e della sua natura pretestuale – la cifra peculiare della politica estera del proprio Paese.

Proprio per questo, ad esempio, Craxi gestì benissimo la crisi di Sigonella del 1985: operò in aperto contrasto con gli intendimenti dell’amministrazione americana, attivò i canali giusti per trattare con i sequestratori e qualificò così l’Italia come soggetto capace di esprimere una leadership autonoma e influente sull’area mediterranea.

Sottrarre due soldati all’accertamento delle loro responsabilità, invece, è solo una mossa di basso profilo. Rispediteli in India!

Finisce

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