FRANCESCA FERRARI

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 10 Ottobre, 2020 @ 6:20 am

(Questa intervista è del 9 ottobre 2020 – A fine giugno 2021 Francesca è improvvisamente mancata. Le esequie si sono tenute il 6 luglio 2021 presso la sua parrocchia, la Chiesa dello Sposalizio della Vergine in Via S. Bernardino a Trento)

Detto altrimenti: una Persona così “ricca” che non so da dove cominciare      (post 4039)

Anteprima

FERRARI. Un marchio famoso per via degli spumanti e della auto da corsa. Ma qui in Trentino “Ferrari” è un nome famoso anche per ben altra ragione: Francesca Ferrari, classe 1934, una Persona che sta dedicando tutta la sua vita agli Altri. Conosco Francesca da circa 25 anni e mi pregio di definirmi – io giovincello classe 1944 – il suo ragazzo di fatica, l’autista per le lunghe tratte, il trovarobe, l’aspirante comunicatore. Da anni infatti le sono vicino e non solo di casa, due palazzi prima del mio, sul bel viale Trieste, lungo la Fersena.

Pur avendo alle spalle oltre 4000 post, questa volta mi trovo in seria difficoltà: da dove e come iniziare l’intervista? Come strutturarla? Per cercare di farmi aiutare nell’impresa ieri sono riuscito a carpirle un breve curriculum vitae: titoli di studio, attività lavorativa, esperienze di volontariato, impegno politico: ancor più arduo il mio compito! E allora mi è venuto in mente un passo del bel libro di Pier Luigi Celli: “Una persona si conosce molto meglio dalla sua storia che dal suo curriculum”. E quindi eccomi qui a cercare di trasmettere il suo valore attraverso una ricerca fra i suoi appunti di vita vissuta (e sono tanti!): la storia di una Persona che vive per gli Altri. Infatti, sempre sorridente, Francesca è la Persona che alla domanda “Come stai?” risponde sempre “Tutto a posto, Riccardo!” il cui pensiero è sempre e solo per gli Altri. Francesca trova normale fare tutto ciò che fa. Ma invece è semplicemente eccezionale!

Lascio ad una eventuale seconda occasione l’esposizione del suo curriculum, come pure la raccolta dei moltissimi documenti che Francesca ha conservato gelosamente, fra i quali molte lettere oggi conservate negli archivi dell’Arcivescovado di Trento. Appena possibile inserirò in questo post altre fotografie.

Ora possiamo iniziare

Francesca, alla guida della tua vecchia gloriosa BMW tre volumi con la spigliatezza di una ventenne a trasportare cibo e vestiti per gli Altri: perché non la cambi quell’auto con una più agevole da manovrare?

Niente da fare: è un pezzo troppo importante della mia vita. Sono molto affezionata alla mia auto, testimone di molti viaggi alla Comunità di San Patrignano di Vincenzo Muccioli. Infatti, complessivamente ho curato l’entrata in quella comunità di ben 354 persone tolte dal carcere, dalla strada, dagli ospedali (perché malate di AIDS). Di loro, purtroppo, 34 sono decedute. In queste trasferte mi faceva da autista il responsabile della “Volante” della Polizia della Strada, maresciallo Mario Mulaz, il quale alle 07,30 del mattino mi attendeva sula porta del carcere di Via Pilati. Con lui c’erano anche due Carabinieri già pronti per il trasferimento. Mi presentavo davanti all’Ufficio Matricola del carcere il permesso firmato dal magistrato competente che quasi sempre era il dr. Giovanni Kessler, che autorizzava quel trasferimento in comunità. I Carabinieri una volta mi dissero: “Lei è proprio pazza da legare, non sa che questo è un delinquente di prim’ordine?”. Rispondevo: “Ah si? Per voi, ma non per me. La prossima volta vi dirò come è andata”. Ed ogni volta tutto andava benissimo.

Francesca, il primo approccio di chi ti incontra è quello con la tua casa-ufficio: due scrivanie ricoperte dai fascicoli delle persone che stai aiutando. E in una stanza, scatoloni e sacchi di indumenti da distribuire a persone bisognose.

Vivo da sola in una casa grande. Avevo (ed ha, n.d.r.) una stanza piena di vestiti per chi vive sulla strada e decide di entrare in comunità o per chi semplicemente ha bisogno d’aiuto. Sai, Riccardo, c’era e c’è bisogno di tutto: la droga è una bestia feroce e distrugge tutto: soldi, sentimenti, famiglia, progetti di bene. E la povertà e la mancanza di un futuro non sono da meno.

Francesca, dal piccolo paese d’origine della tua famiglia in Val di Non alla Francia, dove sei nata: la tua vicenda familiare.

Mio nonno nasce a di Revò (Val di Non, n.d.r.) in una famiglia poverissima. Emigra negli USA dove diventa presto capo squadra minatore e riunisce la famiglia. Rimasto vedovo – la moglie muore di parto – con due figli rientra in Italia. Il mio papà Luigi – classe 1905 – frequenta le scuole elementari a Bolzano, l’Istituto Tecnico a Rovereto, a diciassette anni si iscrive all’Università di Ingegneria Navale e Meccanica a Genova, con la prospettiva di trovare il lavoro in quella città. Al momento della laurea gli viene chiesto di superare l’esame in dottrina fascista.  Mio padre si rifiuta.  Inoltre, i fascisti scoprono che il papà era iscritto al Partito Popolare di Don Sturzo e il giorno dopo lo inviano a Matera. Al che papà parte per l’America con passaporto di studente e come tale viene accettato e si specializza in meccanica aeronautica: tuttavia non essendogli permesso di lavorare, rientra in Europa  e si ferma a  Parigi trova immediatamente lavoro come specialista dei carburatori delle auto da corsa: insieme al suo datore di lavoro brevetta un sistema antincendio. A Parigi conosce e si sposa civilmente con Vittorina d’Este, una veneziana, anch’essa emigrata giovanissima con la famiglia in cerca di lavoro. E in Francia, a Versailles dopo i fratelli Roberto e Fabio, nel 1934 nasciamo io e la mia gemella Beatrice. Poco dopo in Italia nasce Virgilio  ed infine nasce l’ultima, Giglia.

Rientriamo a Revò. 1940: l’Italia dichiara guerra alla Francia. A casa mia mamma e papà ed alcuni loro amici parlavano molto di Mussolini e del fascismo, sempre sottovoce. A scuola, prima elementare: la maestra è una fascista sfegatata e “scopre” che il mio lapis è fabbricato in Francia! Me lo strappa di mano e lo scaglia in fondo all’aula: non lo posso usare perché la Francia è nemica dell’Italia! Dopo questo episodio sono diventata oggetto di scherni, scherzi e percosse da parte di alcuni compagni di classe. Solo uno mi difendeva, un tale Riccardo di otto anni, ripetente per la terza volta. Disse a me e a mia sorella Beatrice di non avere paura perché lui ci avrebbe accompagnato nel tragitto casa-scuola-casa. E così fu. A questo punto la nostra carissima amica maestra Anna Martini ci scrisse alla scuola di Romallo, dove, con la scusa di offrirci la merenda, ci insegnava il catechismo e – all’insaputa di papà – ci portava a Messa. Infatti papà voleva che noi ragazzi decidessimo in autonomia le nostre scelte di fede. Ironia della sorte o meglio per dono del Signore noi tre figli avrebbero poi dedicato la loro vita al Signore e ai Suoi insegnamenti.

Ed io? Per farla breve: scuole medie a Cles (abbastanza lontano da casa dati mezzi di trasporto del tempo) e poi in collegio a Verona dove ho proseguito nella scuola superiore. Al secondo anno, durante uno screening, mi trovano portatrice di TBC e mi allontanano dall’istituto.  Vengo ricoverata Cles, guarisco, continuo gli studi a Trento e recupero gli anni persi. Torno quindi a Parigi dove mi iscrivo all’Università Cattolica, corso di laurea in Scienze Sociali ad indirizzo psichiatrico, avendo la fortuna di trovare professori molto vicini ai loro alunni. Da notare che in Italia la psichiatria è solo “medica” e non ha alcuna impostazione “sociale”, per cui successivamente la mia laurea conseguita a Parigi nel 1957 non viene riconosciuta valida. Nel 1958 inizio a lavorare a Trento quale responsabile dell’accoglienza educativa dei ragazzi con problemi comportamentali segnalati dal Tribunale dei Minori: faccio inoltre l’assistente del Convitto: il mio orario è particolare: dalle 18,00 alle 24,00 e dalle 07,00 alle 09,00 del giorno successivo. All’epoca, grazie alla nuova impostazione del Presidente della Provincia Bruno Kessler, l’istruzione professionale fu totalmente rinnovata nei desideri e nelle prospettive di chi vi si rivolgeva: Kessler mi chiamò per gestire questo cambiamento.

Il tuo rapporto con la Fede e con la Religione dei comportamenti prima che con quella dei riti.

Sono stata battezzata a Parigi, all’età di cinque anni, per puro caso. Infatti la sorella di papà, Maria, che faceva la maestra a Romeno, nell’agosto del 1939 viene in Francia a trovarci e chiede al fratello di far battezzare le due figliolette gemelle. Papà, per ringraziarla della vista, accetta. Come ho detto prima la nostra istruzione religiosa fu curata solo dopo, quando rientrammo a Revò, dalla maestra Anna Martini.  All’epoca veniva spesso a casa nostra Mons. Guido Bortolameotti parroco di Cloz che stava costruendo la chiesa di Cloz e chiedeva aiuto a papà per certi calcoli. Per attenermi alle direttive paterne, non feci la Prima Comunione e la Cresima con i miei compagni di classe. All’età di diciotto anni ebbi una grossa crisi di fede che superai grazie all’aiuto del Mons. Bortolameotti e del professor Don Livio Magagna, preside dell’Istituto Arcivescovile di Trento. Di lui conservo ancora alcune sue lettere molto belle.

Il tuo ingresso nel mondo della solidarietà.

Credo che la motivazione alla solidarietà mi derivi innanzi tutto dai miei genitori: l’attenzione agli altri, soprattutto a chi soffre, a chi vive nell’indigenza; a non vivere mai per se stessi, bensì per aiutare gli altri, sempre, ricercando il dialogo, l’intesa, il perdono. Ho lavorato nel volontariato in Madagascar, Brasile, Bolivia, Cina, Algeria e Marocco. Una cosa però la devo dire: tutta la mia vita non è stata frutto di una mia pianificazione, ma di una serie di chiamate: da un vescovo, da un cardinale, dal presidente della Provincia e da altri ancora, non esclusa una particolare Chiamata, quella che mi ha colpito al cuore, se è il cuore la sede dei sentimenti che hanno ispirato la mia azione.

Francesca passpartout. Per te porte aperte ovunque: a Roma in Vaticano; a Trento in Tribunale, in Provincia, in Comune, all’Arcivescovado. Questa è la credibilità che ti sei meritata.

Il mio passpartout è la gentilezza, il “non lasciar perdere”, l’impegno, il superare quel “lascia che si arrangi, può e deve farcela da solo”; il farsi carico di scrivere ad un giudice, al vescovo, ad un cardinale, al presidente della Provincia per dire loro che “si può fare, si può salvare questa situazione”.

Durante gli anni della nostra frequentazione operativa, mi hanno colpito particolarmente due aspetti della tua azione: quella con i ragazzi del ’68 e con le vittime della tossicodipendenza.

I ragazzi del ’68? Io intesi valorizzare la loro forza contestatrice, le loro ragioni, il loro impegno. Proposi loro di studiare insieme la via per uscire dall’impasse, unendo le forze e dialogando. I “tossici”? Cercavo di capire la loro sofferenza e di superare la domanda che mi facevano regolarmente “Chi ti ha detto che sono un tossico?” Uno di quelli che furono arrestati dalla polizia mi scrisse “Ringrazio il Cielo che mi hanno fermato”. Risposi: “Dimmi cosa ti serve, come vuoi e puoi orientare la tua nuova vita”. Inserivo il francobollo per la loro risposta che mi arrivava regolarmente. Mel 1981 ho fondato l’AFT- Associazione Famiglie di Tossicodipendenti che ho diretto fino al 2004.  Posso affermare che occorrerebbe snellire i passaggi burocratici del percorso di salvataggio delle vittime della droga.

Altro passaggio rilevante della mia vita: nel 2001 insieme a Bruno Masè e ad altri abbiamo fondato la Onluss Trentino Solidale che poi ho presieduto per un decennio dando vita e gestendo 157 progetti di solidarietà nazionale e internazionale. I progetti radicati sul territorio provinciale sono finalizzati alla lotta allo spreco del cibo che viene raccolto dai donatori e distribuito quotidianamente ai bisognosi ; all’offerta – nel periodo invernale – di un posto letto a chi non ha fissa dimora; con il progetto “Alternativa al carcere” alla possibilità di riscattare pene o altre sanzioni attraverso ore di Lavoro di Pubblica Utilità e messa alla prova. Nel 1995 ho fondato e presieduto la cooperativa sociale La Sfera, per il reinserimento sociale e lavorativo degli ex tossicodipendenti, tuttora funzionante.

Francesca, senza di te la nostra comunità sarebbe molto più povera. Viene da chiedersi come fare per non interrompere questa “catena della bontà attiva”: chi potrà ricevere la tua eredità e proseguire questo cammino?

No, Riccardo, non pensar così. Morto un Papa, se ne fa un altro, e l’altro è sempre migliore del precedente.

Francesca, quasi per caso ho scoperto che hai ricevuto dal Comune l’onorificenza dell’Aquila di San Venceslao. Mi piace ricordarlo qui, sui “miei” social, vincendo l’opposizione di te che sei Persona dell’essere e del fare, non certo dell’apparire.

Il sindaco di allora mi attribuì questa onorificenza a seguito delle mie quattro consiliature (1980, 1990, 1999, 2009): insieme a me la ricevettero anche gli altri colleghi.

Francesca. Quattro consiliature comunali sono tante, ma il tuo impegno politico è vivo anche oggi: infatti so che sei molto vicina a una persona …

Dai Riccardo, ma se sei tu che mi hai fatto incontrare Donatella Conzatti, Senatrice di Italia Viva! Un persona che ho imparato a conoscere e che stimo molto.

Grazie Francesca per avere accettato questa intervista: la più difficile da sintetizzare in poche righe; la più ricca fra tutte quelle che ho fatto; la più preziosa da offrire ai miei lettori.

S.E.E.O. … perchè non è facile stare dietro e sintetizzare il fiume di ricordi e di testimonianze di Francesca!

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