MARCELLO FARINA COMMENTA NADIA IORIATTI

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 5 Marzo, 2015 @ 6:58 pm

 

Detto altrimenti: qualche post fa scrissi del libro di Nadia Ioriatti “Io tinta di aria” presentato da Marcello Farina al Circolo Culturale Rosmini di Trento. Sullo stesso tema trovate ben di più nel blog di Mirna, www.trentoblog.it/mirnamoretti   (post 1951)

Post 1951, anno 1951 – Guerra in Corea, alluvione in Polesine, l’Italia ammessa all’ONU senza diritto di voto. Io, a Genova, frequentavo la terza elementare.

Basta così, direte voi, E invece no. Infatti il libro di Nadia meritava la sbobinatura del commento di Marcello Farina, con il che gli eventi letterari-di introspezione umana sono due: il libro di Nadia ed il commento di Marcello, qui di seguito.

Inizia

IMG_2916Buonasera a tutte e tutti voi, in modo particolare alla Preside (Prof. Lia de Finis, n.d.r.) che ci ospita questa sera e in modo particolare poi a Nadia Ioriatti che ha scritto questo testo autobiografico che merita certamente la nostra attenzione. Anche qui, ma credetemi non è per fare un discorso retorico, non sono all’altezza di percepire tutta la ricchezza che è contenuta in questo testo che è l’esperienza di una donna che ha saputo percorrere un sentiero, quello della sua vita, che è carico di umanità da un lato e dall’altro lato anche di imprevisti, momenti in cui proprio l’umanità viene chiamata a rendere conto a se stessa. Quindi ecco … voi prendetemi per quello che riesco a dire, poi sentiremo direttamente Nadia.

Comincio con un passaggio molto semplice: ho cercato di spiegarmi che cosa volesse dire il titolo di questo scritto di Nadia. Esso è un titolo splendido che lascia l’immaginazione capace di indagare cosa esso possa significare.

A prima vista un richiamo a un colore che non c’è: l’aria non ha colore, quindi a indicare una sorta di indecifrabilità costitutiva della persona stessa, qualcosa che lei non vuole esplicitamente comunicare, un voler lasciare il lettore nel vago, nell’indefinito, il proprio desiderio – in pratica – di non esplicitare fino in fondo la propria umanità, e quello del lettore di incontrare l’autrice di questo “arioso” testo. Ma forse questa interpretazione è forse quella meno valida.

IMG_2672 copiaLa seconda interpretazione è un’altra: il voler anticipare, già da subito, la caratteristica di un’esistenza “mobile” come il vento, come l’aria, si potrebbe dire “inafferrabile”, per chi fosse abituato a “classificare”, cioè a cogliere entro schemi precostituiti la vita altrui. Questa tentazione che tutti portiamo con noi di voler dire “ah, quello è così, quella lì è così” per dire … questa inafferrabilità … e dall’altra parte una trasparenza per non fare da ostacolo al guardarsi dentro e a lasciarsi guardare dentro: la fine di una ipocrisia si potrebbe dire così. Ecco questo è quello che io colto nel titolo che è così bello e poetico per suo conto. Per conoscere Nadia Ioriatti – si potrebbe dire – si deve accettare di rincorrere il vento e lasciarsene trasportare senza voler predisporne le traiettorie:  improvvisi slanci e anche le rare pause di quiete.

th[2]Mi piace presentare questo testo seguendo all’inizio quanto scrive Piergiorgio Cattani nella prefazione del libro. Cattani ci invita a entrare in punta di piedi nella vita di Nadia e questo è molto bello, in punta di piedi, senza voler ingombrare in qualche modo l’entrata della coscienza, poi sostare sulla soglia. Anche questa immagine è meravigliosa per lasciare che compaia l’interiorità, l’intimità di chi ha scritto questo testo con una grande capacità di ascolto e di accoglienza di quello che lei ci presenta. Ciò che l’autrice ci mette davanti e che ella chiama romanzo – e questo può sfuggire: è una storia vera, non è un romanzo – ecco sono i corsivi, li chiamo così, sono trenta corsivi esistenziali scritti con uno stile semplice e immediato sincero. Brevi squarci di una vita che chiamo – ma in senso profondo – una vita intricata da molti fili di cui se ne possono scegliere almeno tre.

Il primo l’intreccio fra la sua storia personale così ricca, così drammatica come potrete sentire, come potrete leggere, e il mutamento della società dagli anni sessanta ai nostri giorni. Ecco questo primo intreccio tra la storia personale e le mutazioni del costume dell’atmosfera in cui tutti noi siamo vissuti che ha reso drammatica la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua vita iniziale e dove ha costruito la sua personalità.

Il secondo, lo sguardo di donna con le sue coordinate particolari, c’è una traccia potente in questo senso, quella di una donna che è capace di rivendicare una originalità nel guardare alla vita che è davvero straordinaria.

Ed infine un atteggiamento nei confronti della malattia che l’ha colpita, che come leggerò anche più avanti la prende piombandole addosso inesorabilmente. Ecco questi tre tratti mi sembrano che possano aiutarci a leggere questo racconto che lei chiama appunto romanzo.

IMG_2920Vorrei qui citare un attimo, proprio per dare l’idea anche di questa storia che lei racconta che è la sua storia, leggervi un piccolo squarcio del libro: Nadia nasce e vive in una piccola città di provincia (è Trento questa città). “Bastardo posto”, canterebbe Guccini (di questo termine lei si appropria, diventa quasi l’atmosfera entro cui lei si muove nel ristretto mondo cittadino). Nel libro si incontrano bozzetti di luoghi degradati, storie di un passato rimosso o da rimuovere, ombre tenebrose che popolano il fondo dell’anima. Come per esempio l’ educazione familiare di Nadia fondata sul dovere, sulla rassegnazione, sulla paura anche di poter essere felici. La vicenda del padre (che è poi il filo conduttore mi permetterà di dire Nadia di tutto il racconto, è proprio come il filo che guida questa esperienza umana) sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen e poi morto improvvisamente ancora in giovane età, è presente come un presentimento oscuro. Padre amatissimo ma poco conosciuto, madre forse irraggiungibile. Si profila così un conflitto generazionale muto tra le pareti domestiche, ma gridato oltre quelle mura protettive e insieme oppressive, per esempio nella contrapposizione tra quartieri ricchi e quartieri poveri, nella trasformazione dei costumi, nelle prime esperienze del mondo adulto.

Il testo – e questo è anche molto significativo – comincia con un funerale e con un tramonto diventato rosso. Provate  a immaginare l’emozione che portano questi due eventi completamente diversi: un buon presagio – in senso ironico – si potrebbe dire. E poi la fame di sapere, la molta fantasia, e nello stesso tempo i pochi stimoli intorno. Qui vengono a incontrarsi le prime esperienze anche legate al contesto in cui Nadia vive, casa e chiesa, scuola e catechismo. Sono tracce molto importanti per lei, perché, nello stesso tempo in cui le vive comincia un travaglio interiore che è parte integrante del testo stesso. Non solo la casa come si diceva per via di questo padre che aveva già un’esperienza di dolore e una madre inafferrabile, anche la religione, la chiesa vissute sin dall’infanzia come un momento in qualche modo che non potesse dare, a questa bambina che incominciava a vivere, quella felicità che lei desiderava.

Un mondo monotono e moralistico che la segnerà tutta la vita, per quella che ha vissuto fino a questo momento di sicuro, una religione invadente e moralistica. Ecco mi preme mettere davanti un bellissimo episodio di Nadia – sono un prete posso riferirmi anche a questi piccoli passaggi – va a confessarsi ed è tutta orgogliosa di confessare peccati impuri non commessi, solo per il gusto di contraddire, naturalmente suscitando l’interesse da parte del confessore che voleva sapere dove, quando e quanti. Ecco, per dire, uno degli aspetti che mi ha colpito e che fa anche da filo conduttore. Lei dirà esplicitamente nel testo “non sono credente” ma alla fine della storia non c’è una conversione ma c’è come se l’aria si fosse fatta rarefatta come se in qualche modo un piccolo squarcio di azzurro si fosse aperto: una visita a Lourdes non voluta, accondiscendendo amici, che però in un qualche modo le lascia un piccolo spunto di riflessione. Ho toccato questo punto perché mi pareva che fosse uno di quelli importanti di tutto quello che Nadia racconta.

In questo mondo, in questa realtà, quello che compare costitutivo – se così posso dire – è l’elogio della lentezza non alla maniera politica di Alexander Langer – autore che amava la lentezza – ma nel senso della monotonia, si potrebbe cambiare la parola lentezza con monotonia e con grandi sensi di colpa. In questo luogo, in questo tempo della lentezza, alcune immagini emergono, come dicevo prima: la figura del padre che è fondamentale in questo racconto, una presenza viva, ammirata, sognata, desiderata in certi momenti. Poi l’altro aspetto, lei lo intitola “Noi del confine” per indicare la nascita della prima coscienza sociale: dai quartieri ricchi ai quartieri poveri, l’esperienza dell’ingiustizia insita nella differenza sociale e poi l’idea di essere – si potrebbe dire – superflua, di non avere un posto suo in cui poter esprimere la propria identità. In casa per lei non c’era un letto precostituito: quando nasce suo fratello e diventa grande lei ha come letto il divano del salotto. Quindi è sempre provvisoria, deve aspettare che tutti vadano a dormire, che spengano la televisione. Anche questo sentimento di non essere mai – in qualche modo – in un contesto che l’accetti pienamente, in “un posto mio dove stare”, una sensazione che merita di essere ricordata. E poi la domanda tipicamente adolescenziale “Per che cosa ero portata io?”. E anche qui mi permetto ancora di leggere: “E io? Per cosa ero portata io? Ero complessata e insicura. Mi sentivo goffa e mal vestita. Mi guardavo e mi sembravo di non riconoscermi: Il mio corpo, passato dall’infanzia all’adolescenza, ero motivo di grande preoccupazione. Tra i ragazzi delle medie, mi piaceva Francesco, uno spirito artistico in erba, capace di emergere nella massa. Sicuramente di statura ma in realtà era ancora bambino, più interessato a giocare a calcio che a quelle femminucce smorfiose. Cominciavano a girare le prime minigonne ed eravamo in molte a arrotolare la gonna in vita in modo che si accorciasse. Avevo osato anch’io quel giorno, e durante l’ora di tedesco i maschi lo avevano notato. Francesco, dalla fila opposta, mi stroncò subito, scandendo a mezza voce: “Hai le ginocchia da calciatore”.

Sono piccoli segnali di vita davvero che meritano la nostra attenzione. Ecco, questo per quanto riguarda il primo momento quello che ho chiamato dell’infanzia e dell’adolescenza.

Poi a vent’anni il momento della svolta da questa vita individuale, lei chiama questo momento “Matrimonio mosso” per dire con questo vocabolo, con questo verbo “mosso”, in qualche modo “disturbato”. Ecco, l’idea che è stato un disturbo. E poi restare incinta: matrimonio mosso, e qui scopre tutta l’ipocrisia dei tempi per lei che vuole essere aria, trasparente. Queste sono le contraddizioni che emergono in ognuno di questi trenta racconti – paragrafi di cui è composto il suo testo. Ecco, matrimonio, strada obbligata per chi è rimasta incinta: “No, non cominciò bene”. Questa idea l’accompagna per tutta la vita successiva.

Lei chiama “casaclima” usando un vocabolo recentissimo per dire il clima della casa di quell’epoca. Questo gioco di parole è molto significativo: il clima dentro le case, intendo per clima l’umanità, l’atmosfera dei rapporti umani, fra canzoni e grida scomposte. E poi le gravidanze: Nadia ha due figli che ama tantissimo. E per concludere questa parte, la sorpresa. Detta così potrebbe sembrare l’occasione di cambiare vita. E invece qui la sorpresa del male che incombe perché aumenta il dolore e con esso l’inquietudine. E’ l’otto marzo di un anno che lei ricorda, lei può esprimere questa parola: “Meglio una verità che uccide a una bugia che illude” parola che pervade tutto il suo libro. Ho già accennato a questo filo conduttore: il rifiuto di qualsiasi ipocrisia. Ecco anche qui ho scelto un piccolo brano da leggervi:

“Sono qui per chiarire. Mi aspetto qualcosa di serio, forse un intervento delicato ma risolutivo. A metà strada tra il coraggio e l’incoscienza dichiaro al medico: meglio una verità che uccide a una bugia che illude! E lui estrae lentamente la pistola e mi spara un colpo dritto al cuore. Sclerosi multipla. Muoio restando, scappando immobile, urlando muta, sbarrando gli occhi chiusi. Mi tocca un braccio: “Stia calma, stanno sperimentando nuove cure. Si può convivere. Deve reagire. Voi donne trentine siete molto forti!” Il campanilismo mi sembra una magra consolazione. O ci sarà una geografia delle reazioni a choc da malattie gravi? Fuori, alle mie spalle, qualcuno aveva taciuto. Non ho mai assolto quel silenzio. Non sono donna che delega, convinta del mio diritto di sapere. E poi una malattia così non si può nascondere. Enorme spossatezza, paralisi, debolezza alle gambe, andatura malferma, vertigini, scosse elettriche a piegare il collo, dolori profondi simili a una morsa che tortura, formicolii… poi tanto altro ancora. Smetto di elencare perché il solo riandare a cosa iniziava ufficialmente – e sarebbe stato da allora una convivente tiranna – è inutilmente doloroso. Sono uscita da quell’ambulatorio con mille anni addosso, passando impietrita tra i pazienti divenuti compagni di battaglia”. Grande sincerità come vedete ed è questo il bello di questo testo.

Ecco, ancora c’è al racconto 17 “Voglio una vita estemporanea”. Agli appuntamenti con il destino, dice Nadia, mi sono presentata – e anche questo è un passaggio che mi piace sottolineare – qualche volta in anticipo, qualche volta troppo tardi.

Non è forse la nostra vita? Non è quello che capita a tutti? Di trovarci qualche volta in anticipo agli appuntamenti che la vita ci offre, quindi di non incontrarli mai. Oppure troppo tardi, sono già passati. Per questo che c’è una vena di umanità così interpretativa di quello che capita a tutti noi. E’ davvero interessante: “sono arrivata troppo tardi, sono arrivata troppo presto”.

C’è anche un altro bellissimo passaggio, quando Nadia nelle condizioni della malattia si ritrova a parlare della gabbia come condizione preponderante: gabbia la casa, con tutte le sue restrizioni, e gabbia il corpo, ecco due gabbie che l’accompagnano in qualche modo. E proprio per questo lei dice: “sono molte le case che abitano dentro di me. Case, gabbie … E qui c’è un bellissimo testo, l’ultimo che vi leggo: “chiamatemi Dolores”. C’è un passaggio che è veramente bello:

“Una memoria di ferro mi permetteva un tempo di non scordare impegni, date, discorsi fatti, libri letti, film visti. Di ricordare perfettamente quello che era indispensabile per la mia iperattiva vita di madre e lavoratrice. … Mai avrei detto che la mia vita avrebbe imboccato un tunnel stretto e buio… Dal mio attuale angolo di lettura quella stessa memoria di ferro è diventata un vero tormento. Un urlo interiore e disperato. Se faccio i famosi due conti a mente mi risultano solo le maggiori difficoltà a fare una cosa rispetto a un certo periodo e il resto è davvero minimo. Lo so che nel manuale della perfetta malata di sclerosi è sconsigliato fare confronti tra prima e dopo. Che è importante concentrarsi su quello che ancora riesce, che la ricerca sta facendo grandi passi avanti e la soluzione è vicina! Mah… sono stanca di illudermi, di sperare che in fondo a quel tunnel ci sia un barlume di luce. …Quanto meno rivendico il diritto al lamento, anche se qualcuno s’infastidisce perché lo trova sterile, inutile, fino a se stesso. Tenendo conto che nei miei panni non può mettersi, mi offro come disabile a noleggio per condividere con me questa umanissima esperienza sempre in discesa. Mica per la vita perché allora sarebbe lui l’eroe: andrebbe benissimo anche qualche domenica. E se pensate che mi si addica, se vi fa piacere, chiamatemi Dolores.”

Ecco e concludo questa brevissima presentazione che è una ripetizione di questo filo che per me è stato straordinario … ve ne ho già parlato prima, un tentativo di riaprire il capitolo spiritualità e qui mi premerebbe distinguere: la spiritualità di Nadia percorre tutto il libro ed è una spiritualità di grande profondità. Quello che è importante è non scambiare o in qualche modo non confondere la spiritualità con la fede, sono due cose diverse entrambe grandi, qualche volta s’incontrano qualche volta no ma non è un male. Per Nadia questo incontro come vi ricordavo prima è il viaggio offertole da un’associazione a Lourdes, appunto. Anche qui c’è qualche cosa di ironico, tipico di lei: “proviamo anche con Dio non si sa mai”, ma detto con una tenerezza infinita questo passaggio. E alla fine, quando sta per andarsene, sembra che Qualcuno le dica: “Benvenuta Principessa! Dio ti ama”. E’ un’epokè – si potrebbe chiamare così – una sospensione di giudizio che non incide poi sul resto dell’esperienza ma che diventa ancora una volta un motivo per cogliere la profondità della sua anima. Mi preme sottolineare proprio questo. Ci sono verso la fine alcune parole significative: “sguardo, creatura inquieta, pervasa da eterna insoddisfazione, gli sguardi, i crolli, dentro di me sono piena di macerie”: eppure Nadia continua a recuperare le forze per vivere, per motivare. Ed infine questa domanda che lascia a tutti noi e che lei si pone: “Maturità?”. C’è questo passaggio che conclude … la famosa maturità … a cinquant’anni si è in piena adolescenza. E mi piace tantissimo questa conclusione.

Finisce 

Che altro dire se non: Grazie Nadia, forza, Nadia! Grazie Marcello!

P.S.: commentate anche qui:

http://www.ibs.it/code/9788868760106/ioriatti-nadia/io-tinta-di-aria.html#commenti