UN LIBRO PER L’ESTATE di Claudio Morelli

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 27 Luglio, 2018 @ 5:44 am

 Detto altrimenti: è il libro al quale mi riferisco che è di Claudio Morelli. Il post è mio, una sorta di new-post, un post-lettura, non nel senso di “dopo la lettura” bensì nel senso di “post da leggere”, come se fosse esso stesso un racconto breve  per l’estate …      (post 3268)

Non me ne vorrà la mia madrina-collega-blogger Mirna Moretti se occupandomi di libri “invado il suo campo” di liber-blogger, ma d’altra parte “liber” significa “libro” ma anche “libero” e quindi mi sento liber di occuparmi di un liber.

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Le fortune non vengono mai sole. L’ho appena coniato mio questo proverbio, vabbè? Infatti, se andate a leggere fra i recenti miei post le vicende che – in relazione al fiume Fersina e alla Festa di mezz’Estate dell’Accademia delle Muse – mi hanno portato a conoscere due splendide persone, Claudio Morelli e Lino Beber (dell’Associazione Amici della Storia- Pergine, Presidente Iole Piva), capirete il perché del nuovo proverbio. Ma veniamo al libro. Nel 2015 è stato presentato a Canezza (Katetschin in tedesco, Caneza in dialetto trentino, Kaneitsch in lingua mochena è una frazione del comune di Pergine Valsugana) il libro di Claudio Morelli “Quando i Mocheni giunsero al mare”: si tratta di 72 racconti, uno dei quali ha per protagonista il suo grande amico Lino Beber, coautore con Morelli e Mario Cerato del libro sulla Fersina di cui ai miei recenti citati post. Questo racconto è relativo ad una vicenda del 1958.

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Ho pensato di offrire direttamente un po’ di lettura estiva alle mie lettrici ed ai miei lettori anche prima che corrano a comperare questo libro. Ed allora ecco due chicche: la presentazione dell’opera a firma di Lino Beber e a seguire il citato racconto relativo alla vicenda del 1958. Buona lettura estiva!

La presentazione

libro MC Trentino01122015Con gioia ho accolto l’invito del mio caro amico e coscritto Claudio di scrivere due righe di prefazione alla sua raccolta di racconti ambientati nella sua “Valle incantata” e a spasso per il mondo; protagonisti delle sue divagazioni sono i suoi cari, le sue passioni, il suo ambiente in un “amarcord” che la penna di “Claudicans”, come lo chiamò un giorno un suo professore delle magistrali, rende piacevole e stuzzicante.

         La parola “mito” (= μύθος) per i greci indicava un racconto, una fiaba. Le favole di Esopo con attori principali gli animali (l’astuta volpe, il leone, l’agnello, il corvo…) terminano tutte con “la favola insegna che”, la famosa “morale della fiaba” e nei racconti di Claudio ritrovo l’antico modo di insegnare la magia della vita.

         Nel suo favoleggiare emergono i suoi cari, la mamma Amalia e il papà Albino, i fratelli don Marco e Silvano, la sorella Clara, il suo paese, il cane Sofia e la capra Lela, alcuni personaggi dello sport e della musica, la televisione, le feste, i maccheroni invece della solita polenta, gli avvenimenti di storia locale, lo sbarco sulla luna, l’eclissi di sole, il “Vittorioso” del 1960, la bicicletta da corsa, la Fersina amica-nemica, l’amore. Claudio ricorda che abita nella casa che un tempo era la caserma dei carabinieri e la sua cameretta era la cella dove tenevano per una notte il ladro e il malfattore.

         Claudio ama definirsi “mocheno bianco” per differenziarsi dai Mocheni che parlano l’antico dialetto bavarese e nel suo racconto che dà il titolo alla raccolta delle sue divagazioni emerge l’aria di mutazione che, “quando i Mocheni giunsero al mare”, introdussero nel loro stile di vita.

         “0 tempora, o mores” tuonava Cicerone nelle sue orazioni contro Verre e contro Catilina e possiamo tradurre: “cambiano i tempi, mutano i costumi” e Claudio, che non è solo uno scrittore, ma prima di tutto un poeta, osserva e descrive il mutare del corso dei tempi e la sua penna scorre veloce e arguta a descrivere avvenimenti e sentimenti.

         Claudio per alcuni anni è stato un buon ciclista dilettante, continuando la sua attività di sportivo durante il periodo di leva militare presso il centro sportivo sempre con buoni risultati, tanto da essere tentato di continuare la carriera sportiva, come l’amico Marcello Osler. In quel periodo, avendo superato il concorso magistrale, fu chiamato per iniziare la sua carriera di maestro e, appese al chiodo le due ruote, scelse la vita di maestro elementare che ha svolto con diligenza in varie scuole della valle dei Mocheni e poi nel Perginese. Tutti i suoi scolari ricordano con simpatia e affetto il maestro Claudio. La sua scelta di passare dalla bicicletta all’arte dell’educatore è stata sicuramente indovinata e la sua grande passione per la poesia e per la letteratura si esprime ora nella sua produzione di scrittore, poeta, commediografo.

         Italo Calvino ha detto che “la poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere” e Claudio nelle sue “scorciatoie e raccontini di una vita in folle” è riuscito nell’impresa e chiudo citando le sue ultime righe dove scrive: “Sono nato e vissuto in mezzo alle montagne, fra le pietre e i dossi, al cospetto di picchi e selve ventose, eppure mai sono stato attratto dalle vette e dalla passione dell’arrampicare e del salire in alto; più forte è sempre stato il richiamo dell’acqua, un inconscio desiderio dell’amnios materno o forse soltanto la tendenza a essere Nessuno, come Ulisse, pur se per questo più che l’acqua della Fersina, ci vorrebbe il mare”.

Il racconto: “Il viaggio”

Era una Roma familiare, quasi paesana: il sole d’agosto la rendeva sonnolenta e bellissima nel fervore allegro di un dopoguerra pieno di promesse e futuro, non ancora travolta dal traffico caotico e dall’arroganza del boom economico. Papa Pacelli, Pio XII, nella residenza estiva di Castel Gandolfo viveva i suoi ultimi giorni di Regno e la città si stava preparando alle Olimpiadi che si sarebbero svolte due anni dopo.

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    Lino, Dario e Giuseppe Beber

Per Lino, otto anni, Roma era un premio senza prezzo, un viaggio nell’altrove e nel mito, il primo allontanarsi dalle montagne di Trento. La zia Agnese, maestra illuminata, organizzò il tutto a dovere: partenza in treno assieme ai nipoti, i fratelli Dario ventenne, Giuseppe adolescente e Lino, ancora un bambino. Le prime emozioni già da subito: oltre il finestrino del treno campagne e città, l’Italia concreta che si materializzava uscendo dal sussidiario e dagli atlanti. E poi lei, la fata morgana, la Roma dei Papi e dei Cesari, il punto d’arrivo di tutte le strade. Con la zia a spiegare per bene, la visita ai monumenti più celebri con negli occhi i capolavori sublimi. Lino, più di tutto, rimase abbagliato dalla magnificenza e dalle armoniche geometrie del Vaticano, affascinato e conquistato da una Chiesa trionfante e solenne. E già nel suo futuro si prefigurava il fratello più grande con la tiara pontificia, l’altro fratello avvolto dalle porpore cardinalizie; lui invece, più modestamente, si immaginava vestito con l’abito michelangiolesco delle guardie svizzere. Ecco: il suo sogno divenne subito quello di far parte degli alabardati difensori del romano pontefice. Grande fu la delusione quando venne a sapere che la “conditio sine qua non” per diventare guardia svizzera era quella di esser nato in un posto ben preciso della Confederazione elvetica.

Furono giorni che riempirono la mente e il cuore. Ma una visita a Roma non è tale se non si è visto il Papa, che non era, come si diceva, in città, ma a Castel Gandolfo. La zia allora organizzò la sortita “extra moenia” in modo da poter vedere il successore di Pietro e ricevere la Sua benedizione. Era però una trasferta impegnativa e faticosa che richiedeva una consapevolezza da adulti. E così si pensò di evitare a Lino una giornata che sarebbe potuta risultare, per lui bambino, noiosa e non sufficientemente interessante. E così mentre la zia e i fratelli si recarono a Castel Gandolfo, Lino venne parcheggiato al giardino zoologico con la raccomandazione di non allontanarsi da lì e di passare il tempo, in attesa del loro ritorno, a osservare i vari animali. E Lino lì rimase tutto il giorno, da solo, ad ammirare gli animali più esotici e strani, ammaliato dai più diversi versi, dai canti e dai sibili. Quando all’imbrunire la zia e i fratelli passarono a riprenderlo, lo trovarono euforico: capace di imitare il salto del canguro come il passo del gorilla, lo strisciare del boa e il volo del condor.

Quello che al giorno d’oggi sarebbe etichettato come abbandono di un minore, in quella Roma fine anni Cinquanta, fu invece un episodio che ci dà la misura di una vivibilità e di un equilibrio civile ormai definitivamente perduti. Anche grazie a quel fantastico giorno da solo allo zoo, il ricordo di quel suo primo viaggio a Roma, è rimasto a Lino, diventato nel frattempo gran viaggiatore del mondo, come uno dei momenti più cari, come una sortita nel sogno e nell’assenza di tempo.

Fine – Buone letture estive a tutte e a tutti!

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