FINANZA ED ECONOMIA MISTA

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 11 Giugno, 2020 @ 5:59 am

Detto altrimenti: di cosa stiamo parlando?          (post 3931)

Probabilmente i super esperti del settore utilizzano altri termini, ma in questa sede a me interessa semplicemente stabilire solo un po’ di chiarezza lessicale, così … tanto per capirsi.

La finanza “privata”, cioè la disponibilità di denaro, è generata dall’economia reale. La finanza “pubblica” si genera dai trasferimenti fiscali dal privato all’ente percettore oppure dalla emissione di nuova moneta da parte dell’ente pubblico. Per finanza “mista” possiamo intendere quelle somme di denaro che il privato affida (investe) volontariamente nel settore pubblico sotto forma di sottoscrizione volontaria di titolo di debito pubblico oppure di TIR, Titoli Irredimibili di Rendita (non di debito!). Ugualmente è finanza “mista” quella che si genera in capo all’ente pubblico a seguito dell’esercizio dell’economia mista.

Definire l’economia mista è più semplice: è quella pubblico-privata, concettualmente a metà fra lo statalismo (fa tutto lo stato imprenditore) e il liberismo puro (lo Stato stabilisce solo alcune regole e poi fa tutto il privato). Personalmente io sono contrario ad entrambe queste due forme estreme. A questo punto è chiaro che parliamo di attività economiche e di servizi gestiti sotto forma di SpA il cui azionista di maggioranza o unico sia un ente pubblico (rari sono i casi di azionista pubblico di minoranza: in questi casi tuttavia l’ente pubblico ha azioni privilegiate, le cosiddette golden share che gli consentono diritti ben superiori all’esigua pecentuale di azioni possedute, ad esempio in materia di dividendi e di aumenti di capitale).

La gestione di simili SpA  deve contemperare l’esigenza del rispetto delle regole privatistiche delle connesse responsabilità civili e penali degli amministratori con gli indirizzi della politica dell’ azionista pubblico. Questo non sempre facile contemperamento è agevolato da due tendenze che da qualche tempo si stanno muovendo nella stessa direzione: quella delle SpA, a non ritenere più che l’utile di bilancio sia l’obiettivo primario della propria azione, bensì sia la crescita ed il soddisfacimento delle esigenze umane di fornitori, clienti, del proprio personale e della società umana in genere (alla Adriano Olivetti, per intendersi!); quella dell’ente pubblico a ritenere che la propria attività in ambito economico non possa perdere di vista del tutto l’obiettivo di un buon risultato di bilancio.

Il problema non è semplice, presuppone maturità, competenza, disponibilità, dialogo ed equilibrio da parte di tutti i soggetti e comunque la sua soluzione non può certo essere trovata e spiegata all’interno di un semplice post. Tuttavia un esempio può aiutare a mettere a fuoco un tentativo di soluzione: prendiamo il caso di una SpA comunale per il controllo della sosta alla quale il Comune abbia “ordinato” di riservare gratuitamente per tot giorni un certo numero di stalli auto – normalmente a pagamento – in favore di una certa manifestazione. La SpA dovrà adeguarsi a questa direttiva, ma dovrà computare a proprio credito figurativo gli incassi mancati. A fine esercizio, la SpA predisporrà oltre ai due consueti bilanci (civilistico e fiscale) anche un terzo bilancio, quello figurativo che comprenderà i ricavi mancati per disposizione dell’ente pubblico.

Sotto il profilo opposto, quando una SpA porta orgogliosamente al Comune un certo utile di bilancio, il Comune potrebbe reclamare che il livello dell’utile fosse tale da remunerare ai tassi di mercato l’intero capitale investito, e quindi, ai fini di una valutazione della gstione, potrebbe “impoverire” quel risutato dei corrispondenti interessi calcolatori (kalkolatorische Zinsen: Gruppo Siemens docet!)

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Se un sindaco “ordina” ad una Spa di cui possiede la maggioranza azionaria di applicare tariffe fallimentari, i responsabili di tale società cosa devono fare, se non dare in blocco le dimissioni? L‘alternativa sarebbe “disubbidire” ed allora essi violerebbero l’impegno di “adeguarsi alle direttive del Comune” che è stato fatto loro sottoscrivere all’atto della loro nomina, oppure “ubbidire” e procurare un danno alla società, sini al suo fallimento. Occorre chiarirsi quale sia la “legge superiore”: il codice civile e penale oppure le ordinanze comunali?

Un ulteriore intervento aspetto sul quale riflettere è quello del rapporto fra l’Assemblea degli azionisti ed il CDA – Consiglio di Amministrazione della SpA, nel senso che è prassi e giurisprudenza consolidata che l’Assemblea non possa indicare  le linee guida strategiche che siano vincolanti per il   CDA, in quanto la legge vuole che queste responsabilità (civili e penali, anche a tutela dell’affidamento dei terzi) siano in capo proprio al CDA. Il problema si risolve sulla base del rapporto di fiducia e di rispetto reciproco dei ruoli pubblici e privati coinvolti, nel senso che il CDA non potrà ignorare le attese dell’ente pubblico, che l’ente pubblico non potrà e non dovrà considerare e trattare la propria SpA come se fosse un proprio ufficio.

Ulteriore possibilità di “controllo e di indirizzo” del pubblico sul privato (e delle SpA su loro stesse!) è far sottoporre le SpA in questione alle diverse certificazioni (di qualità, ambientali, sociali) e dotarle di efficienti funzioni interne di Internal Auditing e di Pianificazione e Controllo di Gestione.

Un ulteriore contributo alla gestione ottimale delle SpA “miste” lo si avrà con l’immissione nei CDA e nelle direzioni delle SpA di personale formato managerialmente ed al contempo sensibile a attento ai problemi dell’amministrazione pubblica, il quale possa trovare all’interno dell’ente pubblico un interlocutore culturalmente equivalente e del giusto livello, non troppo “basso” (un ufficio), né troppo elevato (lo stesso sindaco).

Privatizzare non vuol dire necessariamente o esclusivamente che l’ente pubblico debba dismettere le “sue” attività economiche, ma anche che le gestisca prendendo il meglio della cultura manageriale privata.

Un caso controverso: la gestione dell’acqua. Molti dicono: è un bene strategico ( = indispensabile e insostituibile) e quindi deve essere di gestione pubblica. Altri controbattono: è un bene economico (cioè è una risorsa sempre più limitata) e la gestione pubblica, per perdite durante la distribuzione, per mancanza di investimenti e per cattiva gestione,
ne spreca circa il 70% !!): deve essere affidato alla gestione privata. La soluzione? Esistono SpA pubbliche multiregionali che hanno ridotto drasticamente quelle perdite e che sono in grado di progettare, finanziare, realizzare e gestire l’intero ciclo dell’acqua: ricerca, captazione, sanificazione, distribuzione a tariffe accettabili.

Un completamento lessicale, e non solo: in italiano il termine “società pubblica” indica una società posseduta da un Ente Pubblico. Nel mondo anglosassone, il termine “public company” significa “società posseduta dalla collettività dei cittadini” e “privatizzare” si traduce con “to go public”. E spesso il going public si attua attraverso la quotazione in borsa delle sue azioni. Una simile SpA potrebbe essere interessante anche da noi, per coinvolgere e corresponsabilizzare la cittadinanza nella progettazione pubblica. L’ente pubblico potrebbe eventualmente trattenere (o anche no) un picolo paacchetto azionario (“di controllo”) e il denaro pubblico ptrebbe essere raccolto attraverso TIR-Titoli Irredimibili Rendita, convertibili nelle azioni ddella SpA coinvolta.

Un esempio teorico (ma mica tanto) di public company all’anglosassone? Eccolo. Proviamo ad immaginare la situazione seguente, che ipotizziamo relativamente ad un Comune facente parte di un ambito territoriale funzionale intercomunale. Il nostro Comune non attende di essere costretto a vendere ai privati (“privatizzare”) una sua Spa entro una data fissa per ottemperare ad un probabile “dictat” legislativo (ad esempio dell’UE), se non altro perché il prezzo della vendita scenderebbe di molto di fronte ad un compratore consapevole di tale obbligo a scadenza. Ed allora, ben prima di quel momento, il nostro Comune stipula con la sua Spa adeguati contratti di servizio che gli garantiscano comunque il controllo della qualità e dei costi del servizio. Indi il Comune apre il capitale della Spa ai cittadini propri ed a quelli dei Comuni confinanti, uscendo egli stesso dal capitale della sua Spa. La Spa diventa interamente privata, “dei cittadini locali” i quali sono innanzi tutto interessati ad avere servizi efficienti e a costo contenuto, più che, almeno in questa prima fase, a ricevere dividendi azionari. A quel punto i Comuni interessati si consorziano e lanciano un unico bando intercomunale per la gestione del servizio pubblico a livello unificato intercomunale con rilevanti migliorie funzionale e forti economie di scala. La Spa vi partecipa con ottime probabilità di vittoria, in quanto, essendo già operante sul territorio ne conosce ogni aspetto di criticità e di opportunità e può formulare l’offerta di gran lunga assai più tempestiva e favorevole.

Oltre a ciò, la Spa, essendo a capitale interamente privato, potrebbe liberamente operare anche al di fuori dei confini dei Comuni d’origine, partecipando a bandi pubblici lanciati da altri Comuni ed anche stipulando contratti gestionali con soggetti privati. Il suo fatturato aumenterebbe, essa potrebbe assumere altro personale locale; praticare condizioni sempre migliori ai suoi Comuni d’origine; produrre utili e ritorni fiscali ed infine distribuire dividendi ai suoi azionisti. Un esempio? In Trentino, terra dei moltissimi Comuni di difficile reciproca fusione, stiamo già assistendo a Comuni che, per ragioni funzionali ed economiche, hanno riunificato le proprie Polizie Locali. Ed allora, gli stessi Comuni potrebbero riunificare anche la gestione della sosta e della mobilità attraverso un’unica Spa della Mobilità strutturata come sopra descritto.

Cosa? Mi dite che la mia è solo teoria? Può essere, ma intanto iniziamo a pensare anche in questa direzione, per bacini d’area funzionali e per public company all’anglosaassone. Male non ci avrà fatto di certo.

In sintesi: si può anche dire “no” alla privatizzazione che preveda la cessione tout court delle azioni di un SpA pubblica comunale dal Comune ad un singolo imprenditore privato ma si può ben dire “si” ad una privatizzazione che preveda un azionariato popolare, locale e diffuso. Mi pare che il Sud Tirolo abbia già fatto una scelta del genere in materia di energia.

E se mi sbaglio, mi corigerete: io comunque ci ho provato, questo almeno me lo dovete concedere …

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