VE LA SPIEGO IO LA VELA …

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 16 Novembre, 2012 @ 6:43 am

Detto altrimenti: … soprattutto per chi velista non è

Fine autunno. In barca a vela si va di meno, almeno qui sull’Altogarda Trentino. Ed allora approfittiamone per ragionare un po’, per cercare di capire la teoria della vela, che poi è “meccanica dei fluidi”, cioè fisica, cioè scienza, cioè osservazione della realtà.

… di poppa … “sospinta” dal vento

Che una barca, con o senza vela, si muova sospinta dal vento più o meno nella sua stessa direzione, è intuitivo ed accettato da tutti. Il problema sorge quando si vede una barca a vela che risale il vento, cioè che procede con l’andatura di bolina, cioè “grosso modo” controvento (ma mai “esattamente” controvento: questo è impossibile). Come può accadere ciò? Chi la tira? Chi la trascina quasi esattamente controvento contro tale forza?

Vediamo se riesco a spiegarvelo, premettendo che i ragionamenti che sto per esporre vanno ugualmente bene per la vela di una barca, l’ala di un uccello e l’ala di un aeroplano.

Immaginiamo di avere un flusso di un fluido, ad esempio di aria, e di interporvi una lamina di metallo rigida e piatta in modo che formi un certo angolo con la direzione del flusso. Se non esistesse la forza di adesione (tecnicamente, “portanza”), l’aria “in entrata” si aprirebbe in corrispondenza della lamina, si richiuderebbe dopo di essa e proseguirebbe nella stessa direzione iniziale. Cioè, non sarebbe stata compiuta nessuna azione (la deviazione del flusso dell’aria) e quindi non ci sarebbe nessuna reazione (lo spostamento della lamina). Inoltre, gli uccelli e gli aeroplani non volerebbero e le barche a vela non risalirebbero il vento. Vediamo perché.

Poiché invece esiste la portanza, man mano che si passa dagli strati di aria più lontani agli strati di aria più vicini alla lamina, si nota che essi rallentano la loro velocità, sino a raggiungere velocità zero nello strato aderente alla lamina. Cioè, l’aria si “appoggia con attrito” sulla lamina, la “bagna”, per così dire, e ne viene deviata. La lamina a sua volta viene “spostata”. Siamo di fronte ad una azione, la quale determina una variazione “uguiale e contraria”, come da tempo ci avevano insegnato a scuola.

Il mio Fun “Whisper” ITA 526 di bolina, “trascinato” dal vento

 

 

Sulla lamina si forma una forza, la forza aerodinamica (idrodinamica, in caso di fluido liquido) che, passando dall’immagine della lamina ad una vela, sulla vela si scompone in una componente di avanzamento ed una di scarroccio laterale (sull’ala di aereo in avanzamento in avanti e portanza verso l’alto), le quali fanno rispettivamente avanzare la vela (e la barca alla quale essa è attaccata) tirandola letteralmente in avanti e la fanno “slittare” un po’ di lato, cioè scarrocciare. Il fenomeno descritto inizia a verificarsi sulla vela (ma solo sulla vela, non anche su quell’altra “ala” dell’ “aeroplano barca”, che sta immersa in acqua, cioè sulla deriva) anche a barca ferma, in quanto a muoversi è comunque il vento (non si riesce a far partire una barca a barca nel massimo “controvento” possibile).

Grosso modo la stessa cosa accade sott’acqua, intorno alla deriva, cioè a quella specie di ala rigida immersa verticalmente in acqua, attaccata saldamente allo scafo di ogni barca a vela, sulla quale, ma solo quando la barca si muove già, quando cioè avanza scarrocciando leggermente, si generano i flussi di acqua i quali colpiscono in modo leggermente obliquo la superficie della deriva e generano la forza idrodinamica, che si scompone in una componente di resistenza all’avanzamento (che rallenta un po’ la navigazione) ed in una portanza, che limita fortemente lo scarroccio (cioè lo slittamento laterale di cui si parlava prima), ma non lo elimina del tutto (alla fine si scarroccia pur sempre di circa 10 gradi).

Lo stesso fenomeno si verifica sulla pala timone, che quindi funziona anche da seconda deriva, purché esso sia leggermente contrapposto ad una tendenza leggermente orziera della barca (cioè: barra del timone leggermente tirata verso il timoniere per contrastare ed equilibrare la tendenza naturale della barca a “risalire” un po’ la rotta, cioè a stringere un po’ il vento, cioè ad andare un po’ di più controvento da sola). Questa è la ragione per la quale ogni barca a vela che si rispetti deve avere un piano velico che la renda leggermente “ardente”, cioè orziera.

La risultanza di tutte le forze descritte è per fortuna favorevole alla navigazione, e pertanto la barca soprattutto procede in avanti, limitando lo scarroccio a quel poco assolutamente necessario alla formazione della forza idrodinamica di cui si è detto.

Fuori col peso! Più la deriva “esce” dall’acqua, meno lavora e meno stringiamo il vento!

Ma non basta. Ora ve ne dico un’altra, premettendo che mi sto riferendo ad una barca a vela dotata di un albero e due vele: quella di prua, il triangolino detto fiocco, e quella di poppa, un triangolo più grande chiamato randa.

La vela e l’ala di un aereo funziona anche se piatta e rigida. In alcuni casi infatti sono stati raggiunti record di velocità da catamarani ad “ala” (cioè vela) rigida e piatta. Una serie di motivi pratici, anche facilmente intuibili, suggeriscono tuttavia di utilizzare vele fabbricate in tessuto, cioè non rigide e quindi non piatte.

Immaginate quindi la solita barchetta a vela, un po’ inclinata, con le vele tese e gonfie di vento, che sta navigando “di bolina”, cioè quasi contro vento, in modo che il vento colpisca diversamente i due lati della vela. Cosa sta accadendo? Parliamo della randa, cioè del triangolo di tela attaccato all’albero, verso la poppa della barca. L’aria la accarezza, parte da sopravvento, cioè nel suo lato concavo, e parte sottovento, cioè nel suo lato convesso.

Disegno dell’autore

Le particelle di aria che passano sopravvento, quando raggiungono l’estremità posteriore della vela, cioè la parte della vela verso la poppa della barca, tendono a rimontare sottovento verso la parte anteriore della vela, cioè verso l’albero, verso la prua della barca, per intenderci, per tendere riempire quella zona di spazio a minore pressione in quanto non ancora raggiunta dalle particelle di aria che passano sottovento, lungo il lato panciuto della vela, che, poiché devono compiere un percorso più lungo a causa della convessità della vela, tardano un po’ ad arrivare a contribuire e riempire lo spazio che sarebbe loro naturalmente assegnato (in natura non esistono spazi vuoti).

Si innesca cosi in piccolo vortice rotatorio di una massa cilindrica verticale, stretta e alta di aria, che ruota lungo un asse verticale quasi parallelo all’albero, posto immediatamente dietro la balumina (bordo posteriore verticale esterno della randa) della vela, in modo tale da mettere a sua volta in moto una circolazione di una seconda massa cilindrica di aria intorno alla intera randa, che ruota nel senso di opporsi al vento reale nel lato sopravvento, e nello stesso senso del vento reale nel lato sottovento. Sopravvento quindi la velocità del vento apparente (velocità del vento reale+velocità del vento relativo, cioè quello generato dall’avanzamento della barca, lo stesso che si avverte sul viso andando in bicicletta anche in una giornata assolutamente priva di vento) che colpisce la vela sarà diminuita a causa della contrapposizione di questa nuova corrente d’aria che si muove in senso contrario: e per una legge della fisica, a velocità minore corrisponde una pressione maggiore. Sottovento avviene il contrario: la velocità del vento apparente (=vento reale + vento relativo), già di per sé maggiore della velocità dell’aria sopravvento, si sommerà alla velocità dell’aria “cilindrica” di cui vi ho appena parlato, generando una velocità ancora maggiore e quindi una diminuzione di pressione.


Per capire meglio avvicinate la parte convessa di un cucchiaio che tenete delicatamente in modo che penda libero di oscillare, al flusso d’acqua di un rubinetto aperto: ne sarà risucchiato!

Whisper in regata!

Ecco che la vela avrà nella zona sopravvento una pressione maggiore che non in quella sottovento, e sarà quindi soggetta alla forza aerodinamica, la quale si scompone come vi ho detto prima, e farà avanzare la barca grosso modo contro vento, anche se non proprio esattamente contro la direzione del letto del vento.

La stessa cosa accade sul triangolo di vela di prua, cioè sul fiocco, con la differenza che l’aria davanti alla barca “sente” l’avvicinarsi dell’ostacolo rappresentato dalla strettoia esistente fra il fiocco e l’albero della barca, e automaticamente tende a deviare sottovento al fiocco e sottovento alla randa (quest’effetto si chiama up-wasch), a velocità ancor maggiore e quindi a minor pressione: e ci risiamo con l’effetto aspirazione della vela e dell’intera barca, ancora più rilevante che non nel caso della randa, la quale “regala” energia al fiocco.

Per verificare che il liquido “sente” arrivare la strozzatura, riempite la vasca da bagno di acqua e cospargetene la superficie con pepe nero in polvere. Poi immergete in una estremità della vasca una lamina e fatela avanzare verso l’estremità opposta. Vedrete che ben prima di essere raggiunta dalla lamina, i granellini di pepe si apriranno per andarsi a disporre nel sottovento della lamina.

Ulteriore annotazione: a partire dalla zona sotto il fiocco e sotto il boma, si forma, in misura direttamente proporzionale alla distanza della base del fiocco dal ponte e del boma dalla coperta, una spirale di vento in uscita (i così detti rifiuti, che tanto disturbano le barche che seguono), la quale assorbe energia e quindi rallenta la barca. Ecco perché il fiocco dovrebbe essere “spazza ponte”, cioè a diretto contatto con il ponte, ed il boma (asta orizzontale collegata all’albero, sulla quale è inferita la base della randa) essere il più basso possibile (tipo Star) anche se ciò crea qualche problema nelle virate e nelle abbattute (c.d. strambate).

Lo stesso “vortice in uscita” si forma in coda agli areoplani, ed influisce negativamente sulla stabilità del vostro volo. Per cui quando pilotate … mantenete la distanza di sicurezza dall’aereo che vi precede!

Mi fermo qui perché questo non è un trattato di vela. Spero tuttavia di avere quanto meno spinto alcuni di voi ad approfondire l’argomento (al riguardo vi segnalo l’ottimo testo “L’arte e la scienza delle vele” di Tom Whidden e Michael Levitt, Mursia Editore).