COME UN ROMANZO di Daniel Pennac

pubblicato da: admin - 5 Febbraio, 2010 @ 4:30 pm

scansione0005200px-Daniel_PennacStamattina ho riportato in Biblioteca i due libri che avevo preso in prestito alcune settimane fa, l’autobiografia di Jung e un altro, un romanzo di uno scrittore austriaco che una mia cara amica, appassionata lettrice, mi aveva consigliato, ma che io non sono riuscita a finire. Mentre camminavo nell’aria gelida mi chiedevo che cosa mi aveva spinto a interrompere la lettura. Forse non era il momento giusto per leggere una storia ambientata nel 1800 tra le Alpi austriache, nonostante il freddo comune. Non sono riuscita ad entrare in sintonia con il ragazzo sfortunato, un genio musicale, dagli occhi gialli. Certi avvenimenti e personaggi mi hanno fatto sentire a disagio. Insomma, mi sono appellata al III emendamento di Daniel Pennac, cioè al diritto di non finire il libro.

Io sono una di quelle lettrici che deve identificarsi  o partecipare totalmente; ho diritto al bovarismo, che come descrive Pennac è:

“la soddisfazione immediata ed esclusiva delle nostre sensazioni: l’immaginazione che si dilata, i nervi che vibrano, il cuore che si accende, l’adrenalina che sprizza , l’identificazione che diventa totale …”

Da ragazzina lo praticavo intensamente: dopo la lettura agivo e parlavo come i protagonisti del libro, sotto lo sguardo di compatimento di mia nonna Bianca. Ora in tono minore, lo pratico ancora.

Non sempre si mette in atto il bovarismo, lo si fa soprattutto quando ci sono personaggi a noi simili, ai quali vorremmo assomigliare o verso i quali abbiamo una totale empatia.

Che altro ci suggerisce Pennac, il cui vero nome è Daniele Pennacchioni, classe 1944, in questo saggio?

Innanzitutto di leggere, leggere,leggere.

                                                 “La lettura è una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire”

Pennac ha insegnato lettere in un Liceo parigino dove ha compreso la disaffezione alla lettura da parte degli adolescenti. Affronta quindi anche il problema di come si possa stimolare i giovani non tanto alla lettura in sé e per sé, quanto al piacere di essa.

Come ex insegnante di lettere ricordo le ore dedicate a parlare di libri con i ragazzi e i risultati che spesso ottenevo.

Ripenso a Luigi, bravissimo studente ormai pronto per la maturità classica, (che ogni tanto partecipa al blog)  ora appassionato di documenti e reperti della I guerra mondiale, che si offrì coraggiosamente di leggere “Cime Tempestose”, mentre le ragazzine si erano rifiutate. Gli piacque molto.

Anche il luogo in cui si legge può influire sul modo di assaporare un libro: in estate sotto un albero frondoso è magnifico, sul divano di una caldo soggiorno con una tazza di tè accanto, a letto la sera, o in un luogo affollato per crearsi una sorta di nicchia. Ognuno ha il suo luogo privilegiato…

Qual è il vostro?

Ecco in calce i diritti imprescrittibili di Pennac. Siete d’accordo, con tutti, con alcuni?

I diritti imprescrittibili del lettore

I.  Il diritto di non leggere

II. Il diritto di saltare le pagine

III.Il diritto di non finire il libro

    IV. Il diritto di rileggere

V. Il diritto di leggere qualsiasi cosa

VI. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)

VII. Il diritto di leggere ovunque

VIII. Il diritto di spizzicare

IX .Il diritto di leggere a voce alta

X.  Il diritto di tacere

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RICORDI SOGNI RIFLESSIONI di C.G.Jung

pubblicato da: admin - 4 Febbraio, 2010 @ 7:42 pm

scansione0003jungDa sempre sono stata intrigata dalla lettura di testi di psicoanalisi, da profana s’intende, per avere chiarimenti e spiegazioni del nostro comportamento umano. Ho capito  con stupore la causa di certi atteggiamenti miei e degli altri, riesco a interpretare i miei sogni, soprattutto sto meglio se esploro a fondo il motivo di certi malesseri. Misteriosa e affascinante  è la nostra psiche!

 Ho letto molti testi di Freud, qualcuno di Jung e altri. Quando ho saputo dell’autobiografia di Jung, edita nel 1965, sono andata a cercarlo di corsa nella nostra bella biblioteca di Via Roma, al secondo piano. Un po’ malandato, ma c’era. Cosa  c’è di meglio che  scoprire  i pensieri e i sogni di un grande scienziato che ha scandagliato la psiche umana? La sua autobiografia è un’ autoanalisi che aiuta anche noi  a capire quanto importante, per vivere meglio, conoscere a fondo se stessi.Â

E’ stata la sua segretaria  Aniela Jaffè a spingerlo a scrivere di sè, Jung nicchiava un po’. Tanto che esordisce dicendo che la vera soria di una persona, spesso è quella delle esperienze interiori, delle scoperte. Le circostanze esterne a volte non lasciano il segno e non caratterizzano una vita tanto quanto le vicende del cuore e della mente. Poi diligentemente inizia a raccontare dividendo la sua vita in capitoli.

Nasce nel 1875 nel Cantone di Turgovia, da un pastore protestante.  Dice che ha dei  ricordi del primo anno di vita, disteso in un beato stato di benessere  in carrozzina sotto un albero frondoso e poi sul seggiolone.

Anche qualcuno di voi ha ricordi così lontani nel tempo?

 E’ un bambino solitario, assorto in meditazioni, fa sogni molto particolari, che in seguito, ricordandoli, gli daranno lo spunto per la sua tesi dell’inconscio collettivo e degli archetipi. Ricorda di aver subito notato una parte di sè, la n.2, come la chiama, e che aveva anche la madre, più vicina alla natura e a certi fenomeni paranormali. A scuola soffre di malattie psicosomatiche gravi, che spariranno dopo un’attenta anlisi personale e un grande sforzo di volontà.

Studia medicina e si specializza in psichiatria. Vuole conoscere i profondi segreti delle malattie mentali, ma anche quelli della psiche in generale della quale, con Freud,  si è finalmente iniziato a parlare.

  Dice “A me il destino donò, come ad Ulisse una “nekuia”, un compito, quello di scendere nel buio dell’Ade”.

Si dissocia da Freud per quanto riguarda la libido. Per Freud solo le pulsioni sessuali sono la causa delle psicosi, per Jung invece ci sono altri aspetti oltre alla sessualità che concorrono a far nascere le malattie mentali. Per Freud l’inconscio è vuoto dalla nascita e poi si riempie delle cose dannose che la coscienza (l’Io) non sopporta. Jung invece dice che l’inconscio è autonomo e ha già, a priori, un serbatorio di immagini primordiali condivise. L’inconscio collettivo è comune a tutti, come è comune il simbolismo degli archetipi, dei miti . Nei nostri sogni, continua Jung, esprimiamo la nostra vita in maniera primitiva, ma se li capiamo individuiamo meglio il cammino per il raggiungimento armonico del nostro Sè, della nostra personalità.

Jung si sposa, ha 5 figlii e lavora, scrive, analizza. Si sofferma parecchio sull’alchimia, sul paranormale, crede nei “fantasmi,” ne ha avuto prove egli stesso. A 50 anni costruisce una Torre, di forma circolare, a Bollingen dove andrà per sei mesi all’anno a eleborare le sue teorie. Senza acqua corrente, senza elettricità , Jung vuole vivere allo stato pià naturale possibile, per concentarsi sul lavoro. La Torre che diventerà il simbolo del suo progresso nella conoscenza di sè, si alzerà in muratura anno dopo anno.

E’ veramente interessante : i suoi pensieri, le sue intuizioni, i suoi sogni verranno infine rappresentati anche graficamente. Farà spesso dei mandala esplicativi della sua vita psichica.

Jung muore nel 1961, dopo una vita intensa e proficua. Ha scritto più di duecento opere!

Nella mia biblioteca casalinga ho  “L’uomo e i suoi simboli”, che avevo letto con grande passione. Quante cose misteriore abbiamo in noi! Â

Chi di voi è appassionato di psicologia o psicoanalisi ?

Chi invece la rifiuta? Un mio vecchio amico era solito brontolare: “Ha fatto più danni Freud che una guerra…!”

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ODE AL VINO di Pablo Neruda

pubblicato da: admin - 3 Febbraio, 2010 @ 6:37 pm

Pablo_Neruda_(1966)“Ode al vino e altre odi elementari”, è una parte della raccolta “Odas elementales ” composta da Neruda a partire dal 1954  e scansione0002che io vorrei presentarvi oggi come trait d’union al libro “Il pane di ieri” di Enzo Bianchi. In queste poesie vengono  cantate le cose più semplici e fondamentali della nostra vita. Si privilegia la materialità: i cibi innanzitutto, i sapori, gli odori, i fenomeni naturali, gli animali, le piante, le parti del corpo. Neruda usa parole semplici per farsi comprendere da tutti e sfida i lettori  a trovare la poesia proprio nella quotidianità solitamente e storicamente ritenuta banale e prosaica.  

Pane, / con farina  / acqua  / e fuoco / lieviti.   / Spesso e leggero, / coricato e rotondo, / ripeti / il ventre / della madre,/ equinoziale / germinazione  /terrestre. Pane, / che facile / e che profondo sei! /

(Pan, con harina, / agua / y fuego/ te levantas.)    …………………………..

…il pane, il pane / per tutti i popoli, / e con esso ciò che ha / forma e sapore di pane/ divideremo: / la terra, / la bellezza, / l’amore / tutto questo / ha sapore di pane, /forma di pane, / germinazione di farina, / tutto / nacque per essere diviso, / per essere consegnato, / per essere moltiplicato……

Sappiamo che Pablo Neruda oltre a bellissime poesie d’amore scrive le sue opere con intenti sociali per denunciare l’ingiustzia, la dittatura, l’imperialismo statunitense. Si impegna in una lotta politica contro la sofferenza. Secondo lui l’intellettuale è moralmente obbligato a porsi al servizio della causa civile nel processo etico-formativo della società. Un poeta-vate dunque.

 Pablo Neruda, pseudonimo riconosciuto legalmente di Neftalì Reyes Basoalto, nasce in Cile il 12 luglio 1904.

 Nella sua formazione, importantissime  sono la letteratura e la scrittura. Abbandona l’idea di diventare insegnante per dedicarsi principalmente alla poesia. Ricopre incarichi diplomatici e politici nel Sud-est asiatico, in Argentina, in Spagna. E ‘console a Madrid dove conosce  Garcia Lorca.  Dopo il divorzio dalla prima moglie, conosce Delia del Carril, più anziana di lui di 20 anni, fautrice del comunismo, che lo indirizzerà verso l’ideale marxista. Dopo l’uccisione di  Garcia Lorca da parte dei franchisti, Neruda appoggerà totalmente il fronte popolare.  Scrive “Espana en el corazon”.

Nel 1945 è senatore in Cile. Quando però egli accuserà con il suo famoso “Yo acuso” il presidente Videla della violenta repressione contro i minatori in sciopero, è costretto ad esiliare. Si rifugia in Argentina, poi grazie anche a Picasso, raggiunge Parigi. Nel 1952 è a Capri in una villa messagli a disposizione da un amico importante. Questo periodo è immortalato per sempre nel bellissimo film “Il postino”.  Quando in Cile viene eletto il socialista Salvator Allende, Neruda torna in patria.

Gli viene assegnato il Nobel per la letteratura nel 1971.

Muore nel 1973, poco dopo il colpo di stato di Pinochet.

Ci sarebbe tanto da raccontare sulla sua vita intensa e appassionata e tanto da leggere, soprattutto in spagnolo, questa bellissima lingua che gli spagnoli hanno definito “es (o esta) l’idioma por ablar con Dios” ( chiedo aiuto a Raffaella  per l’eventuale correzione) !

Deliziamoci  ora con le sue succose odi, questi canti distesi, solari che emozionano.

ODE ALL’OLIO      

Accanto al frusciare / del cereale , tra le onde / del vento sull’avena, //   l’ulivo / dal volume argentato….

(Cerca del rumoroso / cereal, de la olas /del viento en las avenas,  // el olivo…”

Io amo / le patrie dell’olio, / gli uliveti / di Chacabuco, in Cile, /al mattino / le piume di platino / forestali / contro la rugosa / cordigliera, /ad Anacapri, là su/ nella luce tirrena, /la disperazione degli ulivi, / e nella carta d’Europa, / la Spagna,/ cesta nera di olive /sploverata di fiori d’arancio /come da una ventata marina….

Ed ancora odi  al carciofo, al cocomero, alla lattuga, all’ape, al pomodoro, persino alle patate fritte, tutte in un tripudio di versi pieni di amore e gioia  sensuale per la vita, senza mai dimenticare l’invito alla solidarietà, alla condivisione, alla giustizia,  come nell’Ode al Pane o in quella al Mais, alimento primordiale e mitico dell’America.

 “America, da un grano / di mais t’elevasti/ fino a riempire / di terre spaziose / lo spumoso /oceano. /Fu un grano di mais la tua geografia/ …….

Morderti ,/ pannocchia di mais, vicino all’oceano / dalla cantata remota e dal valzer profondo./ Bollirti / perchè il tuo aroma / s’effonda / sulle azzurre montagne./ Ma dov’è / che non giunge il tuo tesoro? / Sulle terre costiere / e calcaree, / pelate, sulle rocce / del litorale cileno, alla misera tavola / del minatore…”

ODE ALLA MELA

Te, mela,/ voglio/ celebrare /riempendomi/ la bocca /,col tuo nome / mangiandoti…

( A ti, manzana / quiero/ celebrarte / llenàndome / con tu nombre / la boca,/comiéndote….”

Io voglio/ un’abbondanza/ totale, la moltiplicazione/ della tua famiglia / voglio/ una città, una repubblica,/ un fiume Mississipi/ di mele,/ e sulle sue sponde / voglio vedere/ tutta/la popolazione/ del mondo/ unita,riunita, /nell’atto più semplice che ci sia: / a mordere una mela.

ODE AL LIMONE

Da quei fiori/ sciolti/ dalla luce della luna,/ da quell’/odore d’amore/ esasperato,/ immerso nella fragranza, / sorse /dall’albero del limone il giallo, / dal suo planetraio |discesero i limoni sulla terra…

E per concludere questa lettura,  da fare ad alta voce, mi raccomando, ricopio la prima Ode, quella al vino

Vino color de dia , vino colr de noche

Vino color del giorno,

vino color della notte,

vino con piedi di porpora

o sangue di topazio,

vino,

stellato figlio

della terra,

vino,liscio

come una spada d oro,

morbido

come un disordinato velluto,

vino inchiocciolato

e sospeso,

amoroso,

marino,non sei mai presente in una sola coppa,

in un canto, in un uomo,

sei corale, gregario,

e,quanto meno, scambievole……

Amo sulla tavola,

quando si conversa,

la luce di una bottiglia

di intelligente vino.

Lo bevano

ricordino, in ogni

goccia d-oro

o coppa di topazio

o cucchiaio di porpora

che l-autunno lavora;

fino a riempire di vino le anfore,

e impari l-uomo oscuro,

nel cerimoniale del suo lavoro,

a ricordare la terra e i suoi doveri,

\a diffondere il cantico del frutto.

 

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IL PANE DI IERI, e il sapore della vita

pubblicato da: admin - 2 Febbraio, 2010 @ 8:19 pm

scansione0001Il pane non è solo il cibo fondamentale per non morire di fame, è anche da sempre il simbolo del  nostro nutrimento spirituale.

 Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose, prende lo spunto da un detto piemontese “el pan ed séira, l’è bon admàn” per riflettere sul cibo e per ricordare il suo passato.

 Nato nel 1943, egli ci racconta della sua infanzia povera nel Monferrato del dopoguerra, dove la vita era sentita  più come un dovere che come un piacere. L’Italia allora era un paese prevalentemente agricolo, ma il lavoro del contadino era molto duro. Rari e preziosi i momenti di gioia e di calore. Evitando il pericolo di rendere mitico e idilliaco il passato, Enzo Bianchi ci conduce in un mondo di piccole cose che molti di noi, anche se in modo un po’ diverso, hanno condiviso.

I ricordi si aprono come in un caleidoscopio e si agganciano alla memoria collettiva. Il suono delle campane del paese, che scandivano le ore, i racconti dei vecchi nelle lunghe sere d’inverno, le voci dei venditori di acciughe che arrivavano dalla Liguria, acciughe che sarebbero servite per la “bogna cauda” di cui viene riportata la precisa ricetta.

Si intrecciano, mentre leggo, i suoi ricordi ai miei; in Emilia, al mattino presto, in una certa stagione, in bicicletta i venditori di rane urlavano: “rane frésche…rane fresché…”.

Torniamo al pane, cibo prezioso, da rispettare: mai appoggiare sulla tavola a rovescio, raccoglierlo  persino se ne cadeva un pezzetto. Mia nonna Bianca era categorica su questie regole; persino oggi se mi accade di vedere un panino rovesciato devo metterlo diritto.

Io abitavo in una cittadina vicino alla campagna e la nonna Bianca, in giugno, mi portava nei campi di grano maturo a raccogliere papaveri e fiordalisi , spesso mi esortava ad assaggiare i chicchi di grano delle spighe. Un ricordo intenso, di cui sento letteralmente il sapore, che Enzo Bianchi mi ha donato scrivendone.

Insieme al pane, necessità per la nostra vita, c’è il vino al quale vengono dedicati i capitoli centrali. Il vino è il dono, il simbolo della festa, della consolazione, della gioia. Ricordiamo il miracolo di Gesù a Cana! Vino, non per ottenebrarci, ma per sollecitare in noi la letizia, l’apertura verso gli altri.

Stamattina, mentre felice camminavo lungo il Fersina sotto il sole, ripensavo ad ieri sera quando, nella casa colorata e luminosa di una carissima amica bionda che apre il suo salotto a incontri musicali, culturali e ludici,  abbiamo brindato per festeggiare il compleanno di un mio coetaneo. Il vino sembrava oro nei nostri calici e i nostri sorrisi erano aperti al convivio e all’amicizia.

Piantare una vigna, ci spiega il priore che vive tra i filari del Monferrato, è celebrare un matrimonio con la terra. Occorrono tempo e cura per far maturare l’uva. Noè, appena sceso dall’arca dopo il diluvio, pianta una vigna. Nel Cantico dei Cantici il vino è la gioia condivisa.

(So già di che libro parlerò domani, qualche mia amica che conosce la mia biblioteca forse indovinerà!)

Si legge che un tempo cibi e bevande erano usati con buon senso e attenzione; l’alimentazione, e quindi anche lo stile di vita, era più equibrato, pur nella povertà.

             “Sì, c’era una sapienza dei sapori, una conoscenza di limiti e virtù di se stessi e di quanto si mangiava e beveva, che garantiva un’autentica qualità della vita”

Davanti alla sua cella del Monastero, Enzo Bianchi ha un piccolo orto nel quale coltiva erbe aromatiche, orto che non solo dà gusto ai cibi, ma gli insaporisce l’anima.

Il libro si conclude con le riflessioni sulla vecchiaia, la stagione della vendemmia. “Ognuno ha la vecchiaia che si merita” diceva Erasmo da Rotterdam. Si intende ovviamente della propria vita interiore che, se abbiamo coltivato amorevolmente come una vigna, ci darà grappoli d’uva maturi e succosi.

Mi piace l’immagine delle vigne in autunno: le foglie colorate, rosso fuoco, dorate e piene di sfumature calde sono talvolta più attraenti dei fiori a primavera.

 

 

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I CERCATORI DI CONCHIGLIE, o la narrativa rosa

pubblicato da: admin - 1 Febbraio, 2010 @ 6:36 pm

scansione0016Oggi è il primo giorno di Febbraio, un mese denso di impegni, per noi pensionate over 60. Incontri serali,  organizzazione party mascherato, cene, preparazione torte. Insomma ho meno tempo per il mio blog. Ma una promessa è una promessa. Di quale libro parlerò oggi?

Per non impegnarmi troppo, ho scelto un romanzo di Rosamunde Pilcher, autrice contemporanea tedesca che ama ambientare i suoi romanzi in Inghilterra. Le sue storie parlano sempre d’amore, di rapporti familiari travagliati, di segreti e di un  happy end assicurato. Oltre alla storia principale tra due giovani, ce n’è sempre una tra due persone mature. Le lettrici di ogni età sono quindi accontentate. Nel mio scaffale ho alcuni libri della Pilcher, in edizione tascabile. Il romanzo che presento oggi si svolge, come quasi tutti gli altri, in Cornovaglia, terra che mi affascina e  che mi attira tantissimo. Le descrizioni del paesaggio sono suggestive ed affascinanti, c’è sempre il mare, i protagonisti passeggiano sulle scogliere tra il vento e i gabbiani, le signore  di una certa età si dilettano di giardinaggio, soprattutto rose o di pittura ad acquerello. E’ un mondo idilliaco, ameno, che fa sognare.

 In questa vicenda la protagonista principale è una signora di mezza età forte e decisa, Penelope Keeling figlia di un pittore famoso; un suo quadro che raffigura dei cercatori di conchiglie dà il titolo al romanzo (The shell Seekers).  C’è un intreccio che tiene avvinto il lettore, un segreto del passato, un amore appassionato fuori dal matrimonio, molti ostacoli da superare, ma anche tanti pomeriggi nel giardino pieno di fiori a bere il tè.

Mi piace leggere i romanzi rosa quando sono molto stanca o nei momenti tristi, perchè mi distraggono totalmente, come fanno anche i thriller. Da ragazzina ne leggevo parecchi. Mi piacevano le storie d’amore un po’ antiquate della Delly,  di Liala ecc. Le protagoniste, sempre bellissime erano amate da uomini seri e ombrosi, integerrimi,  quasi sempre ricchi e importanti. L’eroina cercava soltanto il   matrimonio, come massima realizzazione di sè. Spesso impallidiva o sveniva, ma subito le forti braccia dell’innamorato la soccorrevano. Una donna quindi che da sola non poteva farcela.  Nei romanzi della Pilcher, invece, le donne sono libere e  indipendenti, l’amore, il matrimonio sono  una scelta, non un traguardo obbligato per essere socialmente qualcuno.

Non credo si debba ritenere la letteratura rosa un genere di seconda categoria; occorre scegliere le scrittrici ( o gli scrittori) migliori ovviamente per non correre il pericolo di cadere nel melenso o nel disagio di leggere delle banalità; molte valide romanziere di questo genere raccontano la vita di oggi, con le sue battaglie e contraddizioni, le sue gioie e i  suoi dolori.

Ma oggigiorno chi legge romanzi rosa? Le giovinette, le signore? Gli uomini? Beh, mi sono ricordata  che questo libro è stato letto  anche da mio marito il quale aveva l’abitudine di mettere a matita la sua iniziale e la data di lettura sulla prima pagina.  Infatti vedo P.3/2001 . (Mio marito era un tipo molto pignolo e ordinato, che amava sistemare e catalogare francobolli,  libri e dischi;  nostra figlia gli assomiglia molto in questo: deve sistemare libri e CD in ordine perfetto)!  So che  questa soria gli era piaciuta, io ne ero molto meravigliata perchè generalmente leggeva libri abbastanza particolari come, per esempio, La storia di Annibale !  in tedesco per giunta!

Mi piacerebbe sapere se esistono scrittori di narrativa rosa. Un dubbio mi assale, la Delly forse era un uomo ? Vado su Internet  e cerco (che comodità)!.  Ebbene, scopro che Delly è lo pseudonimo di J.Henriette e Friedrich de la Rosière, sorella e fratello francesi,  che  scrissero e pubblicarono tantissimi romanzi dal 1903 al 1925. Più di un centinaio.  Tutti rigorosamente con la copertina rosa. Ne posseggo alcune copie anch’io, ereditate dalla mamma.

E chi non conosce  Liala ? Altro pseudonimo di una famosissima scrittrice morta a 98 anni nel 1995. Venne lodata persino da D’Annunzio.

Occorre perciò distinguere tra una buona narrativa e una  narrativa “rubbish, come dicono gli inglesi, cioè spazzatura.

Conoscete altre scrittrici di questo genere che val la pena di leggere?

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PRINCIPESSE SI DIVENTA, istruzioni per una vita da favola

pubblicato da: admin - 31 Gennaio, 2010 @ 5:45 pm

                                                  Qual è il primo desiderio scansione0014delle bambine? Diventare principesse, come Cenerentola,  la Bella addormentata, la Principessa Leila di Guerre Stellari, e così via. E principesse molte lo sono state per i propri genitori. Poi improvvisamente qualcosa cambia, crescendo qualcuna comincia a sentirsi un  brutto anatroccolo, una  sorellastra, una ranocchia, insomma inadeguata.  

                                                                                                                SBAGLIATO!

 Il  promordiale “sangue blu” nascosto dentro di noi, deve risorgere per legittimare definitivamente l’amore per noi stesse e la nostra femminilità

   Cinzia Felicetti ci insegna come farlo, in questo delizioso manuale di “principessitudine”, che io definirei anche il vademecum per l’autostima femminile.

                                                          “Il modo in cui tratti te stessa rappresenta il parametro di riferimento per gli altri” ( Sonya Friedman)

Perciò Cinzia Felicetti ci spinge ad assumere in prima persona la possibilità di essere felici, senza delegare agli altri, nè genitori,  nè marito,  nè amici, questo compito.

                                                “Non puoi startene sedua ad attendere che qualcuno ti recapiti il tuo sogno. Devi darti una mossa per fare in modo che si realizzi.”(Diana Ross)

Amarci come siamo, cercare di stare bene senza farsi avvelenare dall’invidia o dall’abitudine di criticare gli altri; queste ed altre riflessioni importanti nelle sue pagine, e poi vari test, tra cui quello con cui scoprire il proprio “quoziente principesco”, cioè quanto ci amiamo e ci piacciamo. E’ una lettura gradevolissima, non solo perchè  densa di consigli pratici e utilissimi, ma perchè ci mostra una visione della vita fresca, accattivante, soprattutto piena di consapevolezza e forza. Consigli per sentirsi sicuri di sè, che non vuol dire “avere sempre ragione, ma non aver paura di aver torto.”

Una Principessa, scrive Cinzia, ( mi permetto di chiamarla per nome…vi spiegherò perchè) vive pienamente ciò che è diventata, si propone di cambiare in meglio, coltiva la capacità di meravigliarsi con stupore della bellezza di un tramonto, dell’amicizia sorridente, del sapore di un cioccolatino. E sottolinea:

                                                                          “Personalmente ritengo che l’esistenza andrebbe attraversata e centellinata come un romanzo avvincente”

Non bisogna smettere di sognare, sperare, e saper affrontare “i momenti tosti con atteggiamento positivo”. Sentirsi principesse convinte ci fa star bene e regala agli altri ottimismo e sorrisi.

Molte pagine divertenti sono ovviamente dedicate alla ricerca del Principe Azzurro e ai consigli per riparare eventualmente “un cuore spezzato”. Non mancano aforismi ed azzeccate citazioni letterarie e cinematografiche, come alcune della Sagan,  di Coco Chanel  e di famosi maschietti.

Si parla anche dell’abbigliamento, dello shopping sano, del make-up per tutte le età, dell’alimentazione giusta per la linea, insomma consigli per tutte. Una cara amica bionda, ogni tanto, me li li ricorda.

Non lasciatevi ingannare dalla bellissima copertina rosa e dalla silhouette di Audrey Hepburn, icona delle Principesse del nostro tempo,  non è soltanto un libro gaio, ironico, pieno di sense of humour, è un libro che va letto in profondità, come nell’esortazione a camminare da sole, con la testa alta, con eleganza e rispetto per sè e gli altri.

Circa due anni fa, prima della Pasqua 2008, andai ad Aquileia dalla mia amica Giuliana. Dopo le tre ore sul trenino della Valsugana dovetti cambiare treno a Mestre. Entrai nel bar e mi sedetti per un caffè. Quasi subito mi si avvicinò una bella ragazza alta, dal viso luminoso e il sorriso dolce, che mi chiese se potevo sorvegliare la sua valigia mentre andava ad ordinare qualcosa da bere. Venne poi a sedersi accanto a me. Immediatamente cominciammo a parlare,  e non solo del più e del meno, ma delle nostra visione della vita, di noi…insomma… fu straordinario come nella mezz’oretta di attesa per le coincidenze affrontammo argomenti così vari e profondi. Consonanze? Affinità? Fiducia negli altri? Prima di partire Cinzia, perchè avete capito, parlo di lei, mi guardò un attimo, poi mi regalò il suo libro rosa  (destinato ad un’amica della mamma).

Lei partì per prima, io uscii nel piazzale antistante stringendo il libretto fra le mani, felice ed emozionata di quel dono improvviso. Un regalo prezioso come la immediata  e spontanea apertura dei nostri cuori. Pensavo alle belle sorprese che la vita può offrire inaspettatamente.

Cinzia è una vera principessa: può portare la Tiara in platino e diamanti, non c’è bisogno di controllare il test del Quoziente Principesco!

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IL PICCOLO PRINCIPE, il libro che tutti hanno letto

pubblicato da: admin - 30 Gennaio, 2010 @ 7:44 pm

200px-Lepetitprincepiccolo principeIeri ho scritto parecchio di Salinger, della sua vita e del suo famosissimo “Il giovane Holden”. Ho pensato alla difficoltà dell’esistenza, alla solitudine  in cui spesso ci sentiamo. Ho riflettuto su ciò che ci potrebbe consolare.

 Mi è venuto allora alla mente un altro libro cult.

 “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry la cui lettura è sì,  leggera, immaginifica, poetica, ma anche densa di messaggi  per tutti, a seconda dell’età o del momento in cui si legge..

Tutti lo conosciamo e sappiamo che è un delizioso libro illustrato con immagini ad acquerello disegnate  dello stesso autore e che  può essere tranquillamente letto da un bambino delle elementari.

Ma perchè anche i “grandi” ne sono così appassionati? Anni fa, ricordo, un amico di mio marito, un “ragazzo” maturo dalla calvizie incipiente, ma dallo sguardo luminoso, che, venuto  a prendere il tè da noi,  si mise a parlare de “Il piccolo principe” dicendo che se lo portava sempre appresso come se fosse la sua Bibbia personale da consultare spesso.

E’ un racconto breve, si legge in meno di un’ora; l’ho riletto anche oggi dopo pranzo ed ogni volta sono intenerita dall’ingenuità dei dialoghi che avvengono tra l’aviatore, con l’aereo in avaria nel deserto del Sahara, e il piccolo scappato dal suo pianeta perchè deluso dalla sua rosa, simbolo dell’amicizia.

Tutto è  magico e dolce: l’asteroide B612 dove abita il piccolo principe, il racconto della sua vita solitaria consolata dai tramonti che si susseguono continuamente nello spazio interplanetario:

                                                                                                      ” Quando si è molto tristi si amano i tramonti”

Sono importanti sia i disegni che le immagini colorate che le parole suggestive accendono nella  nostra mente. Il baobab, la rosa che viene curata con tanto amore dal principino, ma che per un malinteso viene abbandonata, i personaggi  pittoreschi conosciuti sugli altri pianeti. Insomma ci viene incontro un mondo in technicolor, come  lo è d’altronde anche il mondo dell’infanzia.

Quando il piccolo fa domande sui fiori e sente le frettolose risposte dell’aviatore indaffarato a riparare l’aereo, esclama:

                                                                                                            “Parli come i grandi, tu confondi tutto…tu mescoli tutto.”

Essere adulti significa dunque avere fretta, non avere più tempo per conoscere? I bambini non solo ci guardano, ma ci insegnano a essere più pazienti, e  soprattutto

                                                                                             a vedere bene solo con il cuore perchè l’essenziale è invisibile agli occhi.

Quando la volpe spiega al bambino l’importanza dell'”addomesticamento” il nostro concetto  sull’amore e sull’amicizia viene aperto come un fiore.

“Addomesticare” significa creare dei legami, avere bisogno l’uno dell’altro, ricordare, aspettare con pazienza attraverso anche dei “riti” per rendere speciali le ore dell’attesa. Amare qualcuno, quindi, riempie la vita, sia nel momento della presenza che nei momenti della lontananza, perchè qualcosa ci porterà a ricordare. Chi amiamo è speciale, unico. La rosa sull’asteroide è diversa da tutte quelle che il principino vede in alcuni roseti. La sua rosa è più importante perchè … “sono io che l’ho innaffiata“.

Quando leggiamo queste righe di Antoine de Saint-Exupéry torniamo bambini, ripeschiamo del nostro profondo lago dell’infanzia l’innocenza, lo stupore, la meraviglia.

Si torna dunque sempre all’infanzia,  un periodo della vita o un modo d’essere al quale, come  vorrebbe il giovane Holden, rimanere abbarbicati  o come ci suggerisce il Piccolo principe mantenere per sempre dentro di noi.

Mi piacerebbe sapere quale tra  questi due libri cult è il preferito tra gli ospiti del mio blog.

  

 

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L’ACCHIAPPASOGNI di M.A.Salinger

pubblicato da: admin - 29 Gennaio, 2010 @ 8:38 pm

Tutto il mondo parla della morte recentissima  di Jerome David Salinger, l’autore del famosissimo romanzo”Il giovane Holden“, un libro cult, pubblicato nel 1951, letto da milioni di giovani che nell’antieroe dissacratore della società borghese, si identificava e riconosceva. Si  continua a parlare e a disquisire sulla sua rinuncia a pubblicare altri scritti, tranne qualche raccolta di racconti, dopo quel suo primo immediato successo.

Stamattina su Radio Tre  si parlava ovviamente di Salinger, e a proposito del suo precoce ritiro dalla scena della letteratura, qualcuno diceva che forse l’autore, spaventato da una così grande popolarità, non si sentisse più all’altezza di  scrivere ancora; altri che probabilmente non aveva nient’altro da dire, cioè che tutto il suo pensiero, la sua Weltanschauung fosse compendiata nel suo romanzo d’esordio. Ma Salinger scriveva per sè, ogni mattina, e in una rarissima intervista spiegò:

Non pubblicare mi dà una meravigliosa tranquillità…Mi piace scrivere. Amo scrivere. Ma scrivo solo per me stesso e per mio piacere”

Certamente il personaggio è fuori dall’ordinario. Sappiamo che è nato a New York nel 1911, da padre ebreo e da madre che si converte all’Ebraismo. Contento di sottrarsi alla madre iperprotettiva, si iscrive all’Accademia Militare di Wayne in Pennsylvania, poi alla New York University che però abbandona presto per lavorare su una nave da crociera. Nel 1939 segue un corso serale di scrittura della Columbia University e scrive racconti che colpiscono favorevolmente il suo insegnante. Nel 1942 viene arruolato e partecipa alle più dure battaglie della guerra, come lo sbarco in Normandia  e la battaglia delle Ardenne.  Sua figlia Margaret, autrice del libro di cui parlo oggi, racconta che suo padre fu sempre orgoglioso del suo curriculum militare, tanto che aveva mantenuto per anni il taglio di capelli della leva e conservato la divisa.

Viene assegnato al servizio di controspionaggio, grazie alla conoscenza delle lingue ed è uno dei primi ad entrare in un campo di concentramento liberato dagli alleati. Questa è un’esperienza terrificante che lo segna duramente sotto il profilo emotivo; dopo la sconfitta della Germania viene ricoverato in ospedale per curare una sindrome da reazione allo stress da combattimento. A Margaret confiderà poi: ” E’ impossibile non sentire più l’odore dei corpi bruciati, non importa quanto a lungo tu viva”.

Per conoscere Salinger bisogna leggere “Il giovane Holden” perchè tra le sue righe si possono cogliere tanti riferimenti autobiografici. Innanzitutto il titolo originale ci darebbe un indizio:

The catcher in the rye”, parole tratte (anche se un po’ distorte)  da una poesia di R.Burns, catcher , significa “acchiappatore”, ed è anche il ruolo di un giocatore di baseball,  rye è la segale che cresce nei campi accanto ai precipizi. L’immagine dunque che ci viene suggerita è quella di un bambino  che gioca  in un campo vicino al baratro dove però  sono rari gli “acchiappatori” che possono  salvarlo da una pericolosa caduta.

Non è un caso che sua figlia Margaret abbia intitolato il libro in cui parla di suo padre “Dream catcher“, L’acchiappasogni.

Prima di accennare al racconto della figlia, ricordiamo la storia del giovane Holden Caulfield, che cacciato dal  collegio poco prima del Natale 1949, ricerca disperatamente un aiuto  per essere salvato prima di “precipitare”. E’ un romanzo di formazione perchè si racconta una  dolorosa crescita.  Vengono descritti due giorni durante i quali Holden si pone tanti quesiti su ciò che lo circonda, sugli altri, sul passaggio dall’infanzia all’adolescenza. E’ incerto, ha paura, unico elemento di conforto il guantone da baseball di suo fratello morto, sui cui, con l’inchiostro verde, ci sono scritte poesie. Si chiede dove finiranno le anatre quando il laghetto di Manhattan sarà ghiacciato, teme che un bambino trascurato non potrà mai farcela da solo. Questo adolescente , simbolo della difficoltà di quest’età nel mondo occidentale, fa una critica feroce della società americana dei primi anni ’50, dei pregiudizi, del perbenismo, del mondo adulto in genere. Come Peter Pan lui non vorrebbe mai crescere, anche se ha già 17 anni, lui si sente ancora il bambino che sta per cadere in quel mondo che lo spaventa. Gli adulti che appaiono nel racconto sono negativi, soltanto la sorellina Phoebe, che riuscirà a contattare, di nascosto dai genitori, lo rassicura con la sua saggezza innocente. Non vorrebbe che sua sorella crescesse e iniziasse a provare quel disadattamento che lui sente: nè uomo, nè bambino. Le dirà infatti “io vorrei  salvare i bambini prima che cadano nel burrone”.

E’ chiaro che Holden è la proiezione dello stesso autore, il quale, se nel racconto mitizza l’età dell’infanzia, nella realtà non sopporta i bambini.

Sua figlia Margaret parla di lui come di una persona patologicamente concentrata su se stessa e ci racconta aspetti sconosciuti della sua vita, ma lo fa con amore e con dolore cercando di colmare quel baratro in cui lei è caduta senza essere salvata dal suo Acchiappatore di bambini, perchè suo padre acchiappatore, lo era soltanto di sogni.

L’isolamento in cui Salinger costringe la sua seconda moglie Claire e i suoi figli a vivere, a Cornish, nel New Hampsire, hanno segnato  psicologicamente sia la moglie che la figlia. Dai ricordi di Margaret apprendiamo che Salinger teneva virtualmente prigoioniera la moglie, non consentendole di avere contatti con la famiglia, nè tantomeno con gli amici. L’atmosfera in cui la figlia ha vissuto  la sua infanzia e adolescenza sono quindi contrassegnati dall’isolamento e da una grande tensione emotiva.  Ha dovuto ricorrere, per bulimia, attacchi di panico, stanchezza cronica, a cure psicoanalitiche. Ricorda che sua madre, quando lei aveva 13 mesi, voleva ucciderla e poi suicidarsi per sottrarsi a quella sorta di “incubo e sogno” in cui erano costrette a vivere.

Nel libro comunque ci sono tante fotografie che ritraggono un Salinger sorridente e amorevole con i figli, che raccontano di momenti di intimità. Margaret ammette che sentiva l’amore di suo padre, scrive infatti “Il mondo si illuminava quando papà ritornava a casa”, ma evidentemente non era quell’amore tenero e comprensivo che si aspettava.

Quando, anni dopo, rivelerà a suo padre di essere incinta lui ribatte che spera abortisca perchè non era giusto far nascere un figlio in questo mondo pidocchioso. (lousy).

Noi leggiamo che  Salinger seguiva i dettami della Chiesa scientista, che si interessava alla medicina alternativa e a tante altre teorie e convinzioni spiritual/medico/nutrizionali.

Chi era dunqe Salinger? Un Acchiappasogni? Un giovane Holden mai cresciuto?

I giovani d’oggi si riconoscono in questa difficoltà di crescere?  So per certo che “Il giovane Holden” è presente in molte biblioteche scolastiche, ma non credo che quella rabbia appassionata e disperata di cui lui è il rappresentante più famoso sia presente nell’attuale generazione di adolescenti, più portati, mi sembra, alla rinuncia e all’adattamento.

Ora però  aspettiamo con ansia di leggere i suoi manoscritti, accuratamente archiviati dallo stesso Salinger  che ha lasciato detto:

” Un contrassegno rosso significa, se muoio prima di averlo finito pubblicatelo così com’è, uno blu significa pubblicatelo, ma prima sottoponetelo a revisione, e così via.

 

BIBLIOGRAFIA:

“The Young folks”, racconto pubblicato nel 1949 sulla rivista Story Magazine

“For Emè with love and squalor”, racconto in prima persona di un soldato traumatizzato

“The Varioni Brothers” 1943

“Uncle Wiggly in Connecticut” da cui venne tratto un mediocre film intitolato My foolish heart

“Nove racconti” del 1953

“Franny e Zooly”, 1961

“Alzate l’architrave, carpentieri”

“Seymour. Introduzione nel 1963 (Saga della famiglia Glass)

“Hapworth 16, 1924”, breve romanzo epistolare scritto da un bambino di 7 anni.

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L'ARTE DI MANGIAR BENE secondo ARTUSI

pubblicato da: admin - 28 Gennaio, 2010 @ 7:39 pm

Pellegrino_ArtusiFrontespizioStamattina mi sveglio presto, mi faccio un buon caffè e, imitando una carissima amica che segue questo rito da sempre, me ne torno a letto per berlo con voluttà. Immediatamente Mimilla, la gattina principessa, mi viene accanto a fare le fusa e a richiedere le sue coccole. Penso che sia veramente bellissimo non dover correre al lavoro con il freddo e il gelo, ma potersi inventare la giornata. Voglio fare ciò che mi dà piacere, un’ora di ginnastica, un caffè con un’amica, nel pomeriggio forse un film, lettura, scrittura…ma soprattutto ho in mente di farmi gli gnocchi al pesto per pranzo. Ho due vasetti di squisito pesto ligure, dono dei miei consuoceri, ed oggi, visto che ho delle belle patate, mi voglio cimentare in quest’opera creativa. Cucinare è senz’altro un’arte; io non sono molto brava, il vero chef della famiglia era mio marito Piero, però riesco a preparare torte buone per le riunioni serali e qualche sugo speciale per la pasta.

Chiedo a un’amica che ritengo più esperta quali ingredienti mettere e mi vengono suggeriti ovviamente patate, farina e un uovo. Sembra facile, concludo.

In cucina, canticchiando, comincio a schiacciare le patate lessate calde e aggiungo l’uovo. Schiaccio e schiaccio, mi sembra un laghetto paludoso. Ah, la farina. La metto, ma non succede niente. Irritata, ne aggiungo ancora, e ancora…intanto il tavolo, il pavimento, la gatta nera che circola curiosa lì intorno… tutti coperti da uno strato bianco. Alla fine mi stufo; tolgo dalla terrina questa pappa e comincio a fare i serpentelli, ma mi rimangono quasi tutti in mano, qualche pezzo si disgrega; non canticchio più , ma continuo ad aggiungere  altra farina. La gatta, se ne va miagolando,  scocciata dal velo bianco che vede volare.

Ah, finalmente la consistenza giusta per fare gli gnocchetti… Non capisco perchè non sono cilindrici, ma simili a sassi deformi. L’acqua bolle… io li butto dentro. Mi pare di ricordare che quando vengono a galla sono pronti. Li scolo e li metto nel mio piatto già pronto con il profumato pesto. Sono grossi, qualcuno è attaccato all’altro come gemelli siamesi, e sono duri, duri come la pietra.  Dalla rabbia li mangio ugualmente, e poi vado a cercarmi il libro dell’Artusi.

La ricetta suggerita da questo mago della cucina non prevedeva l’uovo!

Leggendo la sua ricetta mi rilasso perchè il suo linguaggio ottocentesco e fiorito è una delizia. Continuo a sfogliare e ritrovo in queste pagine l’atmosfera delle famiglie borghesi di fine ottocento e l’importanza che la cucina, fatta a regola d’arte, aveva. Artusi è spiritosissimo, per cui questo libro non è un semplice ricettario, ma è un divertente e utile documento sulla vita dei nostri antenati.

Pellegrino Artusi nasce  a Forlimpopoli nel 1820, si laurea in lettere, si stabilisce a Firenze, diventa critico letterario, scrittore e gastronomo.

 Infine si dedica al commercio, curando in modo particolare i suoi due maggiori interessi: la letteratura e la cucina.

Il suo libro, pubblicato nel 1881, ha già avuto 111 edizioni.  Nella sua opera l’Artusi raccoglie tutte le ricette regionali culinarie dando così, 20 anni dopo l’unificazione d’Italia, un contributo importante per la formazione di una cucina nazionale italiana. E’ un testo che ha cementato l’unità d’Italia non solo a tavola, ma anche nell’uso della lingua. Qualcuno dice che vi ha contribuito più che Manzoni con  I Promessi Sposi.

Il suo è un linguaggio corretto, scorrevole dove si ritrovano parole desuete e qualche toscanismo, e dove la spiegazione del piatto viene “infarcita” di aneddoti, citazioni poetiche, riflessioni personali.

Ecco gli ingredienti che suggerisce per gli gnocchi:

“……………Patate grosse e gialle, grammi 400.Farina di grano, grammi 150:

Vi noto la proporzione della farina per intriderli, onde non avesse da accadervi come ad una signora che, me presente, appena affondato il mestolo per muoverli nella pentola, non trovò più nulla; gli gnocchi erano spariti. -O dov’erano andati?-……..”

 Si erano liquefatti. I miei invece…

Dal suo ricettario a tutt’oggi sono state cancellato soltanto alcune ricette, tra le quali una per cucinare il …pavone!

“Siate allegri ,dunque,” inizia l’Artusi spiegando la sua ricetta dei Biscotti della salute   “chè con questi biscotti non morirete mai o camperete gli anni di Mathusalem. Infatti, io, che ne mangio spesso, se qualche indiscreto, vedendomi arzillo più che non comporterebbe la mia grave età, mi dimanda quanti hanni ho, rispondo che ho gli  anni di Mathusalem, figliolo di Enoch.”…Nella ricetta ci sono anche, oltre farina, zucchero rosso, burro, bicarbonato di soda, uova, latte,  il cremor di tartaro (?) e odore di zucchero vanigliato…

Artusi morì a 91 anni.

Ma insomma in che cosa ho sbagliato nel fare gli gnocchi?

 

 

 

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UMBERTO SABA, da Poesia italiana del Novecento

pubblicato da: admin - 27 Gennaio, 2010 @ 4:51 pm

DSCF1185Saba in ebraico significa pane; il nostro poeta, che in realtà si chiamava Poli, lo assunse per amore della madre ebrea, abbandonata dal marito.

Oggi, 27 gennaio,  ho ripensato a lui e alla sua poesia :

                                                                                                                                                                                              La capra

                                                                                                                                                                                    Ho parlato a una capra:scansione0005

Era sola  sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perchè il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita

sentivo querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

 

 

saba

Saba usa parole semplici,  (troviamo la sua poetica nei versi “Amai trite parole…m’incantò la rima fiore amore”, ma ciò che scrive  lo sentiamo  fortemente e immediatamente nel cuore,  e in questa poesia riusciamo a percepire sia il dolore del popolo ebraico perseguitato, sia il  dolore dell’umanità intera.

“La capra dal viso semita” è un verso prevalentemente visivo e Sanguineti, che ha curato questa antologia, dice che probabilmente Saba non si riferisce coscientemente agli ebrei, ma si aggancia d’istinto ai pregiudizi iconografici sugli israeliti.

Qualche altro critico pensa addirittura a un probabile conflitto con la cultura ebraica, sorto  a causa dell’austerità e della severità della madre. La mancanza del padre, la madre costrittiva dalla quale  vuole liberarsi spingono Saba a sottostare a un trattamento psicoanalitico dopo  il quale forse sorge in lui il desiderio di distacco dalla cultura materna.

Mi piacerebbe leggere dai miei ex-alunni, che quest’anno sosterranno l’esame di maturità, cosa hanno imparato circa la poesia di Saba in generale.

Ripassiamo velocemente: il poeta nasce a Trieste nel 1883, frequenta le scuole commerciali senza conseguire il diploma (i poeti non hanno bisogno di diplomi o lauree!), s’imbarca come mozzo sulle navi, si stabilisce a Salerno dove si sposa, poi torna a Trieste e qui apre una libreria antiquaria,  tuttora gestita da un gentile signore; durante la seconda guerra mondiale, costretto dalle leggi razziali, soggiorna a Parigi e a Roma, nascosto presso una famiglia amica.

Nel 1951 gli viene conferita la laurea honoris causa. Muore nel 1957.

Che cosa ricordate di Saba? Le poesie dedicate a sua moglie Lina?   Ulisse?   O forse quella dedicata a quella bellissima città azzurra che è Trieste?

………………………………….

Trieste ha una scontrosa

grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,

con gli occhi azzurri e mani troppo grandi

per regalare un fiore:

come un amore

con gelosia.

………………..

La mia città che in ogni parte è viva,

ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita

pensosa e schiva.


Gli alunni della mia ultima terza media, in gita scolastica a Trieste, l’hanno  imparata a memoria.; erano così orgogliosi di recitarla mentre  “salivamo l’erta” e vedevamo il “muricciolo” o la “sassosa cima”.

Naturalmente abbiamo anche visto con sgomento il ghetto ebraico e la Risiera di San Sabba.

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