SOLSTIZIO D'INVERNO,quando la vita può ricominciare

pubblicato da: admin - 7 Marzo, 2010 @ 7:34 pm

DSCF0165scansione0007Ogni tanto occorre inframmezzare le letture con un dolce e piacevole romanzo di Rosamunde Pilcher. Il libro scorre veloce  tra le mani suscitando sentimenti positivi, suggerendo forza d’animo e speranza.

  I protagonisti  di Solstizio d’inverno sono due ultrasessantenni: Elfrida che appena rimasta vedova lascia Londra e si trasferisce in un villaggio dello Hampshire e Oscar, un musicista,  che perderà tragicamente la famiglia,  poco dopo.

Le due solitudini che combattono il dolore della scomparsa dei loro cari cercano di consolarsi a vicenda, ma si nota più coraggio in Elfrida che riesce a trovare serenità grazie al nuovo ambiente ed a una rete di amicizie positive.

Le donne si sa affrontano meglio il dolore quando si trovano improvvisamente senza il compagno di una vita. Forse siamo più coraggiose? O abituate a soffrire di più perchè portate per nostra indole a sopportare?

Uniti dal lutto da superare, presto però Elfrida ed Oscar riusciranno entrambi a ricominciare una vita insieme. Si trasferiranno in Scozia, incontreranno altre persone e altre storie.

Le ambientazioni sono sempre suggestive, dalla campagna inglese, ai pubs fioriti di petunie, dai salotti confortevoli con il caminetto acceso, alla Scozia prenatalizia. Insomma passione, delicate emozioni,  descrizioni piacevolissime, felicità che riappare.

Rosamunde Pilcher è nata nel 1924  in Cornovaglia, scenario di quasi tutti i suoi racconti, ma vive ora in Scozia. Ha scritto moltissimo e nel 2002 la Regina Elisabetta le ha conferito il riconoscimento OBE, Officer of the Order of British Empire. Dai suoi romanzi la televisione tedesca ha tratto gustosi telefilms che ogni tanto riusciamo a vedere anche noi. La bellezza sta proprio nei paesaggi stupendi della Cornovaglia o di altri parti della Gran Bretagna.

Il messaggio di questo Solstizio d’inverno è dunque che non si è mai troppo vecchi per ricominciare. Talvolta si può incontrare un altro partner con il quale condividere affetto, affinità, consonanze; ma non è sempre necessario per dare una svolta alla propria vita. Oppure?

Ci sono sessantenni che si sono rifatte una vita sentimentale appagante, altre che riescono a condurre una vita in dolce solitudine, ma colma di interessi, amicizie e un altro genere d’amore.

Talvolta è meglio essere soli, che sentirsi soli vicino a qualcuno che non ti capisce.

Che ne pensate?

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LESSICO DELLA GIOIA, o la luce dentro di noi

pubblicato da: admin - 6 Marzo, 2010 @ 7:16 pm

Questo è uno dei primi libri di cui volevo parlare, ma non lo trovavo perchè mescolato ai volumi di poesia. Finalmente ieri mi è tornato tra le mani. Avrei potuto parlarne anche senza sfogliarlo, ma mi piace ricopiarne esattamente le citazioni  che io ritengo illuminanti. L’autore è Lorenzo Gobbi, le edizioni sono Qiqajon della Comunità di Bose.

Io credo che, nonostante le giornate di malinconia, di nostalgia, di sofferenza, dentro di noi esista in nuce la gioia, altrimenti non riusciremmo a proseguire la vita. “La gioia sembra in attesa di un varco, di una ragione anche solo apparente per irrompere intatta nel mondo”. La gioia paragonata alla luce che si accende e ci illumina. Ci “illumina di immenso?” Ci regala “i momenti d’essere”?

La gioia  è un’intima coesione con ogni cosa del creato che sembra voler dialogare con noi. Nella linfa della natura riconosciamo “il fluire del nostro sangue trasformato in ritmo di danza“; la stessa terminologia data a ciò che ci circonda è un dono amorevole di gioia. “Esprimendole, plasmiamo le cose“. L’oro non è  solo metallo, ma un prezioso pegno d’amore, il frumento e la vite danno i frutti che consumiamo insieme, le foglie impersonano il nostro destino. E che dire del filosofo tedesco (non ricordo quale) che consiglia di lasciarci crescere come un giglio nel campo sotto il sole? Questa è un’immagine che spesso ripercorro per trarne coraggio e speranza. E mentre lo penso mi sento parte della terra e mi affido ad essa con più fiducia.

Per spiegare la gioia, non c’è che il lessico della luce che, per Marsilio Ficino, richiama la natura del bene. “si diffonde all’istante…senza nuocere si diffonde su tutto e penetra in tutto…e forse la luce è la stessa vita dell’anima celeste.”

La gioia è amore per la natura, per gli altri, è anche una capacità fulminea di comprendere e leggere  il mondo con attenzione e libertà.

Quali sono le immagini della gioia che vi ritornano alla mente? Reali o sognate? Io ricordo i miei sogni, anche quelli passati; anni fa ne facevo di bellissimi e pieni di gioia, come quello colorato dove una leggera pioggerella primaverile bagnava un folto cespuglio di glicine di cui percepivo il profumo o quello in cui volavo con guanti rossi su un’isola verde. E i momenti reali ? Gli abbracci alla mia tenera bambina, il meriggiare estivo nel nostro giardinetto ligure,  l’ultimo viaggio in una Provenza viola di lavanda con mio marito.

Chi contempla e riconosce immediatamente la gioia non chiede nulla, si limita ad osservarla e viverla. In tedesco Freude si riferisce all’antico Froh, forse “svelto, veloce”, quindi la caratteristica della gioia è appunto l’abitudine a illuminare brevemente le nostre vite, ma come il sole, sappiamo che ritornerà.

Poco fa mi sono affacciata alla finestra del mio condominio-nave. Mi vedevo riflessa nei vetri degli uffici vuoti della Provincia , da lontano sembravo ancora una ragazza, sentivo Stefania suonare Mozart per il concerto di domani, il sole mi scaldava il viso, il cielo azzurro cobalto sembrava illuminarsi man mano che lo osservavo, ho provato un attimo intenso di gioia. Esultanza, desiderio di ringraziare la divinità.

Lorenzo Gobbi in questa “raccolta di scintille” che ci vogliono regalare letizia e gioia, non solo ci parla dell’ etimologia della parola stessa nelle varie lingue, ma  ci racconta  di musicisti, di poeti, di scrittori che riescono a trasmetterci un godimento dell’animo, impressioni di bellezza, grazia e perfezione.

Tutto era buono, tutto era giusto“, scrive Katherine Mansfield;  davanti alla bellezza, ai momenti “perfetti”, “il nostro corpo esulta, incontrollabile: cantiamo.” La Mansfield , di cui parlerò a lungo più avanti, era affamata di gioia come si può essere a 23 anni.

Lo si può essere a qualsiasi età? Perchè no? Se doniamo letizia, allegria, ne saremo certamente  contraccambiati. Ho amiche solari, sorridenti, liete, che illuminano i momenti vissuti insieme. Ho la mia sorridente figlia con la quale condivido risate, riflessioni e buoni propositi per superare gli attimi di sconforto.

E si ritorna a Seneca De vita beata  e ai suoi esercizi esistenziali: essere consapevoli per essere liberi.

Una ricerca per smascherare il senso della vita,  calarsi in noi stessi per scoprire la nostra identità  e il proprio posto nel mondo , per condurre tutto a un’unità. E questo ce lo raccomanda Marcel Proust.

Per felicità e gioia si deve soprattutto parlare di condivisione d’amore. Gesù ci dichiara ” Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra  gioia sia piena“.

Ma per concludere non si poteva non parlare di San Francesco, (un mio eroe), artefice della propria letizia, un miracolo alto e affascinante che si può sentire vivo ancor oggi, solo ripercorrendo la dolce terra d’Assisi. La  sua intima gioia e la sua esultanza per la vita non si sono disperse, rimangono sotto il cielo umbro, tra gli ulivi, negli uccellini , nei tramonti rosati, nel suo pensiero che travalica confini.

Questo, io, cattolica poco osservante e talvolta miscredente, ho provato l’estate scorsa ad Assisi. Una gioia palpabile, uno sbocciare di sentimenti pieni d’amore per il tutto, un desiderio di ringraziare.

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NOVECENTO, il pianista sull'oceano

pubblicato da: admin - 5 Marzo, 2010 @ 6:47 pm

scansione0005scansione0004Eccomi puntualmente da ormai 45 giorni davanti al Pc con un libro accanto. Libro che ogni giorno scelgo di presentare secondo pensieri, emozioni, ricordi che vanno e vengono come onde nella mia mente. Libri che ritrovo negli scaffali oppure che vedo per la prima volta  in biblioteca o che mi vengono prestati o regalati. Molti vengono letti ma non mi sollecitano la scrittura quotidiana, altri invece mi spingerebbero a scrivere di essi per più volte. Il libro di Baricco occhieggiava con la sua copertina azzurra-nera nella parte dello scaffale ad altezza occhi. E ciò che riporta al mio cuore è dolce.

Tutti conoscerete il monologo teatrale scritto da Alessandro Baricconel 1994 e il film  che  Tornatore ne ha tratto quattro anni dopo con il titolo “La leggenda del pianista sull’oceano.”

La storia è quella di un neonato abbandonato a bordo del transatlantico Virginian e trovato da un marinaio di colore Danny Boodmann. Il bambino accudito con amore dapprima da Boodmann sarà in seguito “adottato” da tutto lo staff del piroscafo. Verrà chiamato Novecento perchè dice Goodmann :” L’ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutisimo secolo, no?… Andrà lontano con un nome così.”

A otto anni Novecento strabilierà marinai e passeggeri con una eccezionale performance al pianoforte che evidentemente aveva imparato a suonare da solo. Ha un grandissimo talento, una tecnica straordinaria che lo rende  capace di suonare “musica mai sentita prima.” Nasce così la sua leggenda unita al fatto che egli non scenderà mai a terra, ma vivrà la sua vita sul Virginian, microcosmo galleggiante che fa ininterrottamente la spola tra Europa ed America.

Le pagine di “Novecento”sono molto poche e si leggono in un’oretta o due; naturalmente si rimane colpiti dal personaggio particolare che si realizza nella musica, sospeso tra pianoforte e mare, con il timore  di crearsi radici sulla terra ferma che vede come un altrove a lui estraneo. Per lui sembra non esistano compromessi o scelte, la sua esistenza ha ragione d’essere in quella piccola città che naviga sull’abisso e il suo respiro vitale sembra adattarsi al dondolio delle onde che lo hanno accompagnato sin dai suoi primi vagiti.

Una volta, da adulto,  cerca di scendere a terra, a New York.  Recita:  “Tutta quella città…non se ne vedeva la fine…Su quella maledettissima scaletta…era molto bello, tutto…e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema/ Col mio cappello blu/ Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/… Non è quello che vidi che mi fermò/ E’ quel che non vidi…cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne…/ c’era tutto./ Ma non c’era una fine.”

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88…non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro  quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito…Questo a me piace” spiega Novecento.

E quando c’è mare grosso la nave balla e il pianoforte nelle sale di prima classe scivolano avanti e indietro “come un enorme sapone nero“.

Ricordo anch’io una notte di mare a forza 8 mentre navigavamo su una nave da crociera  attraverso il Golfo del Leone. Mi trovavo in una cabina posta ai ponti inferiori, una di quelle  destinate  allo staff, il dondolio era terrbile, in più ero reduce da una brutta influenza, perciò stavo abbastamza male; ma venni “salvata” e accompagnata sul ponte A, quello di prima classe , dal pianista che poi divenne mio marito. Ci sedemmo su un divanetto che insieme al pianoforte comincio a scivolare avanti e indietro,avanti e indietro. Non avevo paura anche se sentivo ruggire il mare, perchè accanto a me c’era Piero che mi teneva la mano. C’era il mio pianista sull’oceano.

E naturalmente nostra figlia Stefania è una pianista.

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LA TREDICESIMA STORIA, e il "ritorno" nello Yorkshire

pubblicato da: admin - 4 Marzo, 2010 @ 8:09 pm

DSCF0149la-tredicesima-storiaCon questo appassionante romanzo di Diane Setterfiled, (titolo originale “The Thirteenth Tale”) si torna nella patria dei mie personaggi preferiti:  Jane Eyre,  Rochester, Catherine e Heathcliff, insomma nelle brughiere delle sorelle Brontè. E si ritrovano le stesse emozioni, anche se la storia si svolge ai gioni nostri: misteri, intrighi, atmosfera gotica, colpi di scena. Inoltre, e questo mi piace tanto, è un libro che parla di libri.

La protagonista, Margaret, lavora infatti nella libreria antiquaria del padre, lavoro che ama. La vediamo mentre accarezza il dorso di vecchi testi, mentre ne aspira l’odore. La sua vita tranquilla , ma con un fondo di  malinconica solitudine, viene completamente cambiata da una famosa scrittrice, Vida Winter, che la invita nella sua casa nello Yorkshire per farle  scrivere la propria biografia.

Ed ecco  che l’arrivo nella magione misteriosa della carismatica e sfuggente vecchia scrittrice sarà l’inizio di scoperte sconcertanti e affascinanti. Tutto il loro rapporto si concentrerà sull’arte del narrare e sulla necessità finale della verità. Due generazioni a confronto: la timida Margaret e la spigolosa Vida dagli occhi di un verde insostenibile, entrambe accomunate dal ricordo di una sorella gemella morta. Un rapporto che lentamente diventerà importante e intenso.

Sarà Margaret a dipanare l’aggrovigliata matassa.

I gemelli è un tema che intriga tutti perchè esso evidenzia il duplice aspetto di ognuno di noi e  le domande su chi siamo o chi potremmo essere. Se ci guardiamo allo specchio chi vediamo, noi o qualcuno di simile a noi? Insomma  il doppio dell’essere umano, le domande sulla realtà e la possibilità sono ingredienti  della nostra vita.

L’autrice è una studiosa di letteratura francese e vive nello Yorkshire dove sono stata qualche estate fa  e dove mi piacerebbe tornare. La campagna inglese amata dapprima attraverso le mie letture preferite è diventata, dopo il mio anno in Inghiterra e alcune visite fatte poi, una mia grande passione. Di essa mi piace la dolcezza dei prati e delle colline, la romantica asprezza delle brughiere rosa, i villaggi  tranquilli e fermi nel tempo , le sale da tè  che hanno nomi come The Almond Tree,  Pink roses, The quiet corner.

Mi piacerebbe avere un cottage nella campagna inglese, con un giardinetto pieno di rose color crema, un gatto e tanti tanti libri. E amici con cui parlarne.

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Problemi e testimonianze della civiltà letteraria italiana

pubblicato da: admin - 3 Marzo, 2010 @ 7:52 pm

catchthemoon17sl6scansione0002In queste notti di luna chi di noi, alzando lo sguardo in cielo, non ha sussurrato:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Se qualcuno non l’avesse fatto può sempre correre ai ripari. E’ talmente bello in certi momenti “intimi” con la natura parlarle attraverso i versi dei grandi poeti!  Io lo faccio spesso e l’ho anche consigliato ai miei alunni. Molto presto forse ci ritroveremo a recitare: ” C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico…” e nei pomeriggi cocenti dell’estate forse ripeteremo “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’oro…/

Ma il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di Giacomo Leopardi, mi è stato  ricordato, oltre che dalla  luna piena di qualche notte fa, anche da Luigi che ne ha scritti alcuni versi in un commento al blog,  quelli in cui il poeta, e quindi anche Luigi, desiderano volare oltre le nubi per contar le stelle, perchè forse la felicità sta nelle cose irraggiungibili . “Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi,…”

 Leopardi prende spunto per questo suo  Grande Idillio da un articolo letto su un giornale francese in cui si parlava di un  viaggio compiuto da un barone russo nel 1820 nell’Asia centrale. La sua immaginazione ne rimane assai colpita tanto che ricopia un passo sullo Zibaldone: ” Parecchi di essi ( dei Kirghisi, una delle popolazioni nomadi dell’Asia centrale) passano la notte seduti su una pietra a riguardare la luna e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno.”

E’ un particolare suggestivo per  una sensibile anima romantica tanto che il Canto notturno…diventa una poesia filosofica in cui il pastore che interroga la luna viene identificato naturalmente con se stesso, giovane sognatore sempre pronto a farsi domande sull’esistenza  e sugli spazi enigmatici del cielo stellato.

“Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?”…

“Nasce l’uomo a fatica

ed è rischio di morte il nascimento”…

“Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale

Invidia la greggia che incosciente non conosce il tedio, quella profonda noia senza conforto che deriva proprio dalla vanità di tutto.

Appare l’ansia universale dell’uomo che si sente sperduto nell’immensità del cosmo dove la bellissima luna lo guarda, ma è insensibile al dramma dell’esistenza umana. Persone dotte o semplici pastori, ogni uomo è consapevole dell’inutilità della vita in cui l’unica risposta è nell’ultimo verso “…è funesto a chi nasce il dì natale.”

Sappiamo tutti del “pessimismo cosmico” di Leopardi, ma sappiamo anche  con quanta forza combatte attraverso le sue opere, le sue speculazioni filosofiche  e quanto è vitale la sua lotta .

A noi rimangono anche immaginifiche  evocazioni come quelle indimenticabili  della siepe sul suo “infinito”, della donzelletta con rose e viole, del canto di Silvia a maggio, e soprattutto della luna, nivea dea silenziosa indifferente e irraggiungibile.

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L'IDIOTA, di Fédor Michàjlovic Dostoévskij

pubblicato da: admin - 2 Marzo, 2010 @ 9:10 pm

dostojevsky 001scansione0001E poi “arrivarono” i russi.

 E quale cambiamento nelle mie letture ! Dalla campagna inglese di Thornfield e i salotti borghesi di Liala, mi ritrovai nella grande madre  Russia! Mi prese  un  fortissimo incantamento per l’ambiente e i personaggi di Dostoévskij, primi fra tutti per il principe Myskin. Da un’amica della mamma, un’operaia comunista, mi vennero regalati “I Demoni” e “L’Idiota” quando avevo appena 17 anni ( tuttora conservati gelosamente),  ed io cominciai a leggerli  con voracità, nonostante occorressero attenzione e grande impegno. Entrai con tutta me stessa nella Pietroburgo di metà Ottocento, nei salotti accanto al samovar, seguendo le colte conversazioni,  sillabando ad alta voce i nomi così affascinanti  come Natàs’ja Filippovna, principe Lev Nikolàjevic Myskin, scoprendo soprattutto quanto profondo è il nostro animo umano e quanto Dostoévskij ne sapesse scandagliare gli aspetti più misteriosi. Più che Freud fu questo grande autore russo che mi iniziò all’analisi introspettiva.

Parafrasando una trasmissione radiofonica di Radio Tre “Sulla via di Damasco” dove agli intervistati viene chiesto quale libro è stato illuminante per la propria formazione, anch’ io dirò che “L’Idiota” è stata una rivelazione fulminante,  sia per il mio percorso  di lettrice che  per la mia crescita  personale, proprio per la ricchezza  e varietà dei comportamenti umani descritti.  L’universo dell’Idiota comprende varie tipologie umane: dall’irreprensibile  e sensibile Aglàja che si innamora platonicamente del principe,  alla sensuale e profondamente umana Natàs’ja, dall’ambiguo ateo nichilista Rogozin  al meschino Ganja. E tutto intorno c’è la solita società di parassiti mondani, volti solamente al culto del denaro e del proprio orgoglio.

Si distacca la figura del principe Myskin che per Dostoévskij è l’eroe realmente buono. Lo stesso autore nella ricerca di questa tipologia umana dichiara di rifarsi al Don Chisciotte perchè anch’egli è buono e deriso, e non conosce il proprio valore.

Myskin è un aristocratico che soffre di epilessia alternata a stati di “ebetudine”, resa patetica agli occhi di tutti dalla sua accettazione ingenua di un “credo di amore universale”

Il suo ritorno dalla clinica svizzera, dove è stato curato,  a San Pietroburgo, città  preda del denaro e dell’immoralità, sembra un avvento di Cristo per salvare l’umanità; questa analogia è descritta negli appunti dello stesso Dostoévskij dove Myskin “sarebbe stata l’immagine analogica del Cristo con le sue qualità interiori, innocenza e santità“.

I personaggi di Dostoévskij rimarranno per sempre nella memoria dei  suoi lettori, per Gary “I fratelli Karamazov”, per mio padre “Il giocatore”, per altri   Raskòlnikov di “Delitto e castigo” ( romanzo che io, quando avevo 12 anni, regalai a mai madre pensando fosse un libro giallo!!!) , per me soprattutto il principe Myskin  la cui bontà innocente, l’ingenuità fraintesa mi commuovono e affascinano.

E per voi?

Quali libri vi hanno”fulminato” sulla vostra via per Damasco?

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IL BALLO, di Irène Némirovsky

pubblicato da: admin - 1 Marzo, 2010 @ 7:47 pm

12188765Presento oggi un altro breve romanzo della Némirovsky, “Il ballo” perchè  strettamente intrecciato ad alcune tematiche di “Jezabel”. Fra queste  l’ambiente mondano della Parigi alto borghese degli anni’20, l’ipocrisia sociale, la rivalità madre-figlia.

Il racconto è brevissimo ma scritto in modo chiaro, essenziale e folgorante. L’autrice riesce a descrivere in poche pagine la meschinità dei nuovi ricchi che s’affacciano al “bel mondo”, bramato come bene supremo e il rapporto negativo fra una madre ambiziosa dedita esclusivamente ai piaceri mondani e un’ adolescente desiderosa di attenzione e tenerezza .

La quattordicenne Antoinette riceve solo rimproveri dalla madre tutta presa ad organizzare il ballo che la legittimerà come parte della Parigi “bene”: “Questa marmocchia mi sta sempre tra i piedi…Mi hai di nuovo macchiato il vestito con le tue scarpe sudicie…Stupida!” “Sta dritta. Almeno tenta di non sembrare gobba.”

Antoinette si sente annientata, ma nei suoi sogni cominciano ad apparire uomini che l’ammirano e la accarezzano come Andrea Sperelli e altri personaggi letterari.

Quando cerca un bacio materno, la madre sbotta “Ma lasciami in pace, m’infastidisci! ” Il  pensiero predominante di quest’ultima è l’importante ballo per “far crepare d’invidia” il mondo modesto dal  quale proviene, prima delle insperate e fortunatissime operazioni in borsa del marito.

La ragazzina vorrebbe partecipare al ballo, ma la madre sbotta ” Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito…”. Ed anche questo aspetto si ricollega al personaggio di Gladys Eisenach per la quale esiste prepotente la rivalità fra giovani e “vecchi”, persino fra madre e figlia!

Ma anche i giovani  sono egoisti, a loro sembra inconcepibile di non potere avere  tutto:  “Sono io che voglio vivere, io, io…Sono giovane , io. Mi derubano, si prendono la mia parte di felicità sulla terra…”

Non c’è amore fra le due, ma soltanto egocentrismo ed ambizione. La ragazzina si vendicherà  poi crudelmente gettando gli inviti, che doveva spedire, nella Senna. E il ballo non ci sarà.

Scritto nel 1930 quando Irène ha 27 anni, e subito dopo il suo primo romanzo di grande successo “David Golder”, questo racconto, come altri,  denuncia dolorosamente l ‘arido rapporto che la scrittrice aveva con la madre.

Sappiamo che Irène Némirovsky nasce a Kiev nel 19o3. Il padre, un ricco banchiere  ebreo, è costretto  con la famiglia a rifugiarsi in Francia dopo la Rivoluzione del 1917.

La giovane Irène è affidata ad una governante francese perchè la madre, disinteressata alla sua educazione, è tutta presa dalla mondanità di Parigi. Irène leggerà molto e comincerà a scrivere in francese.  Il suo talento è indiscutibile e la critica manifesta la sua ammirazione a questa giovane donna elegante e mondana  che riesce a scandagliare così profondamente l’animo umano. Nei suoi personaggi femminili possiamo ritrovare costantemente  la figura della madre desiderata e “odiata”.

Irène scrive e pubblica, sposa un ricco banchiere, ha due figlie, ma con l’avvento del Nazismo, e nonostante la sua conversione al Cristianesimo, sarà deportata ad Auschwitz dove morirà  di tifo nel 1942.

Uniche superstiti le due figlie, Denise ed Elisabeth che in una valigia serberanno i manoscritti della madre, tra i quali il celeberrimo “Suite francese,” pubblicato in Italia nel 2004.

La domanda prepotente che affiora alla mia mente: ma può esistere rivalità fra madre e figlia?

E un ‘altra riflessione: il pronome personale  io è forse la parola più usata?

 

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JEZABEL, ovvero la dannazione dell'eterna giovinezza

pubblicato da: admin - 28 Febbraio, 2010 @ 8:09 pm

scansione0012scansione0013Appena conosciamo il personaggio principale di questo romanzo di Irène Némirovsky ne rimaniamo catturati. Pur accusata di omicidio Gladys Eisenach incuriosisce morbosamente per la sua bellezza che si sta sgretolando. Perchè Jezabel? Perchè come l’antico personaggio biblico, immortalata da Racine nell'”Atalia”, Gladys simboleggia non solo l’immoralità, ma soprattutto l’idolatria per la bellezza e la giovinezza da conservare per sempre a tutti i costi.

Si ripercorre la vita dell’imputata tornando ai suoi primi balli nella stagione londinese, alla fine dell’Ottocento. E’ bellissima, giovane e l’ammirazione di tutti la rendono felice, la fanno sentire invincibile e potente. Nella cintura porta infilato un mazzolino di roselline rosso scuro, ne sente il profumo, danza ebbra alla musica dei valzer : ” Che felicità. O meglio no, non era ancora la felicità, ma un’attesa, un’inquietudine divina, una sete ardente che le faceva battere più forte il cuore”

Credo che tutte noi “ragazze” ricordiamo  queste speranze e questa gioia provate ai tempi della prima giovinezza quando ci sentivamo euforiche e piene di energia. Ma la “dannazione” di Gladys è di essere troppo bella, di essere adorata da tutti gli uomini, invidiata dalle donne e questo le procura un ‘enorme voluttà che la imprigiona nel suo narcisismo. Vuole essere soltanto amata, non vuole amare.

E qui credo che la nostra somiglianza si distacchi dal suo ritratto. La sua vita sarà esclusivamente vissuta al mantenimento della giovinezza anche anagrafica, perciò bugie, sotterfugi, drammi per non rivelare la propria età.

Naturalmente può farlo, è molto ricca,  vive a Parigi,  ha abiti eleganti, gioielli,cosmetici,  ma questa ossessione per il tempo che passa non la farà più sentire sicura come durante i primi balli dei suoi vent’anni.

Per noi è senz’altro una figura anacronistica, ma l’invecchiare non è certo un piacere neppure per noi femministe…Gladys sottolinea purtroppo la limitazione dell’essere donna, destinata solo a piacere  e a piacersi quando è giovane ?  Da quando è cominciata questa esigenza? Dopo il Neolitico…? E sono stati gli uomini a far sì che una donna non più giovane  diventasse “trasparente” e brutta?

O siamo noi che talvolta rifiutiamo la serenità e la pace della “vecchiaia”?

In questa avvincente storia della Némirovsky, ci sono molti colpi di scena che non svelerò,  difficili rapporti familiari, e purtroppo c’è anche la crudeltà dei giovani verso i vecchi…Domani scriverò un post su un altro suo libro.

In una trasmissione di Arbore, c’era il “filosofo” Catalano che pontificava:

é meglio essere ricchi che poveri

belli che brutti,

giovani che vecchi… Che abbia ragione?

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IL RIBELLE IN GUANTI ROSA: Charles Baudelaire

pubblicato da: admin - 27 Febbraio, 2010 @ 6:59 pm

scansione0011copj13Non potevo, dopo la interessante lezione su Baudelaire tenuta  della professoressa M.Cristina Corcione, esimermi dal parlare del libro di Giuseppe Montesano. Ho anche cercato i vecchi appunti universitari,  quelli scritti seguendo il corso del  mio docente di letteratura francese, il poeta, Luciano Erba. Non li ho trovati naturalmente, il caos regna sovrano ormai nella mia casa, ma i ricordi sono ancora abbastanza  freschi e basta rovistare  un po’ nel  mio “bagaglio culturale” per farli riaffiorare.

Seguivo le lezioni con avidità, la vita dei poeti è per me quella eccelsa, come quella dell’albatros che si sente se stesso quando  può volare ad ali spiegate al di sopra delle meschinità terrene. E proprio la poesia “L’albatros“  ha letto la bravissima e luminosa  professoressa Corcione, nella’aula magna della Utetd. Naturalmente la traduzione in italiano penalizza un po’  la musicalità dei versi in rima alternata di Baudelaire.

Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage /prennent des albatros, vastes oiseux des mers, /qui suivent, indolents, compagnons de voyage,/le navire glissant le gouffres amers.

Sovente, per diletto, i marinai / catturano degli albatri, grandi uccelli marini  /che seguono, indolenti compagni di viaggio, / il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.

  Il contenuto rimane, sia nel significato metaforico dell’ albatro, simbolo del poeta incompreso e deriso appena questi “atterra” tra gli altri, sia nella scelta delle figure retoriche come la sinestesia: abissi amari.

Per me  più della famosissima  “Spleen” è questa la poesia baudeleriana che mi cattura e graffia, perchè qui si parla di solitudine fra gli altri, di diversità denunciata, di incomprensione e di  cosciente crudeltà.

In “Spleen“, c’è l’angoscia esistenziale del poeta che si sente prigioniero, io penso, persino di se stesso,  vede la speranza come un “pipistrello che sbatte contro i muri” e le gocce di pioggia non sono paragonate alle liberatorie e consolatrici lacrime, bensì imitano “le sbarre d’un grande carcere”.  Da soli forse però si combatte meglio l’angoscia , perchè siamo noi soli di fronte a noi stessi, ed è quello che il nostro poeta riesce in parte a fare, grazie alla sua  poesia.

La parola inglese spleen, che significa sentimento di noia, disagio , malessere, insofferenza rassegnata di vivere è entrata nel nostro vocabolario; io stessa in certe giornate malinconiche in cui non ho voglia di nulla dico che ho lo spleen. Succede anche a voi? Spero però che non sia così insopportabile come quello di Baudelaire!

Nel libro di Montesano ripercorriamo la vita dolorosa di questo grande poeta che ha rinnovato la poesia con il suo simbolismo e le corrispondenze, cioè le analogie con le cose; anche i profumi, i colori e i suoni come “lo spirito e i sensi” entrano in accordo totale, in una combinazione infinita di corrispondenze. Forse c’è già un’anticipazione del correlativo oggettivo di Eliot, e poi di Montale,  per cui la metafora si oggettivizza, considerando  l’astratto  oggetti concreti.  (Scusate, ma sono appassionata di poesia!) Che ne dice Luigi? E le mie colleghe e figlia  angliste? E le lettrici?

…i pensieri che diventano” un popolo muto di infami ragni che tende le sue reti”…

Per tornare alla sua biografia, impariamo che pur vivendo negli anni falsamente fiduciosi della rivoluzione industriale e del progresso, Baudelaire ne percepisce i limiti e gli inganni e si rifugia nell’Arte, come valore assoluto, dall’alto della quale, come l’albatro, ne vede però la verità deludente. La sua poesia diventa la testimonianza della crisi della coscienza borghese che anche lui, come tanti artisti, abborrisce.

Sappiamo della sua vita, dell’abuso di oppio, alcool , del suo dandismo, della sua amante mulatta chiamata con disprezzo  dai parigini la Negresse e conosciamo il suo male di vivere. Conosciamo le sue difficoltà economiche, le frequentazione dei bassifondi della città, la ricerca della bellezza proprio nel male, egli  si propone infatti “d’extraire la beautè du Mal”. Attraverso la sua esperienza di solitudine, incomprensione, il poeta sembra ripercorrere la tragedia dell’essere umano, “dell’homme double”. Si pasce nel fango di Les fleurs du mal, ma  aspira anche all’Ideal.

In questo ampio romanzo Montesano si delinea come un potente citatore delle opere del poète maudit; ci ha messo 10 anni a completarlo, ma vale la pena leggerlo. Piero Sorrentino commenta : “questo libro si legge come un romanzo, perchè Montesano è riuscito prima di tutto nel piccolo miracolo di specchiarsi, e far specchiare il lettore, nel volto, dalla “smorfia che gli taglia la faccia in tutte le fotografie e fino alla fine”, del poeta, mio simile, fratello.”

                                                                                                                          *     *         *            *

A proposito di spleen.

Appena arrivata , la mia gattina Mimilla, era molto malinconica. La sua prima infanzia era stata terribile come quella di Cosette dei Miserabili, abbandonata, ammalata, ecc. ecc. Prima di abituarsi alla tranquillità e all’amore della mia casa, era sempre piena di spleen. Quando la portai dal veterinario e lui mi chiese il suo nome da scrivere sul libretto personale io dissi:

“Mimilla di nome e…Baudelaire di cognome.  Sa, è sempre piena di  spleen!”   Il veterinario mi guardò perplesso.

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LESSICO FAMIGLIARE, e le parole che ci accomunano

pubblicato da: admin - 26 Febbraio, 2010 @ 9:17 pm

scansione0006Quali sono le parole, i modi di dire che accomunano e contraddistinguono una famiglia? Ognuno di noi, se ci pensa attentamente, li troverà. Natalia Ginsburg è riuscita a costruire attorno ad essi la storia della sua famiglia d’origine. Chi non ricorda le “malegrazie”, gli “sbrodeghezzi,” i “potacci” che suo padre urlava in svariate occasioni?

Questo romanzo è la “bibbia” della mia amica Giuliana di Aquileia. Credo che lo sappia a memoria e spesso usa le stesse espressioni, come d’altronde è capitato anche a me. “Malignazzo Belgio” esclamammo infatti  io e mia figlia, copiando la mamma di Natalia , quando qualche estate fa  giungemnmo a Bruxelles e trovammo pioggia e freddo. Con il treno dovevamo raggiungere Bruges per il concorso di Musica antica (…Vinto, poi! …Ma ancora non lo sapevamo!). Campagna desolata, grigia, stabilimenti fumosi e pioggia. “Malignazzo Belgio”…ripetevamo battendo i denti, e via che ci mettevamo un’altra maglia, poi i calzini, una sciarpetta. Ci chiedevamo: Ma diceva proprio così la mamma della Ginzburg? Sì, e aggiungeva anche “Malignazzo di un Liegi”, perchè lei ci era stata per un po’ di tempo, e non le piaceva per niente perchè pioveva sempre.

Una madre dolce, vaga che avrebbe tanto desiderata una villetta con giardino, tanto che quando faceva il gioco delle carte  diceva “Vediamo se  qualcuno mi regalerà un villino”

Completamente diverso il padre, Giuseppe Levi, ebreo, docente di anatomia comparata, che faceva il buono e cattivo tempo in famiglia. Risoluto, autoritario, brontolone esortava i figli e moglie a una vita spartana: docce fredde, gite in montagna  faticosissime. Se qualcuno cercava qualche comodità veniva definito “negro”. Una “negrigura” era un atto o un gesto inappropriato, come indossare  scarpe da città in montagna o cappellino per ripararsi dal sole, o soltanto lamentarsi di avere sete.

Gli “sbrodeghezzi” invece erano non solo i comportamenti ineducati a tavola, ma anche i quadri moderni, come quelli di Modigliani. Fra l’altro uno dei suoi figli sposò poi  la figlia di Modigliani, matrimonio durato però molto poco.

 Leggere le pagine di Natalia Ginsburg è un piacere, una gioia; la nostalgia è soffusa di leggerezza e sorrisi. Persino gli avvenimenti più tragici come la prigionia del padre, il confino dei fratelli e l’uccisione del marito Leone Ginzburg vengono ricordati come attraverso un velo che sembra averne assorbito il dolore.

Siamo nella Torino degli anni Trenta, una città intellettuale dove incontriamo Cesare Pavese, l’editore Einaudi, gli Olivetti, Eugenio Montale e tantissimi altri. Si parla di Mussolini, delle leggi razziali, dell’antifascismo, ma soprattutto  si parla della famiglia di Natalia Ginzburg, che come scrittrice userà sempre  il cognome del primo marito.

Ciò che mi affascina in questa ricerca del “tempo perduto” da parte della Ginzburg, che a Proust è debitrice, (ha fatto una traduzione della “Recherche”) è il modo distaccato eppure forte con il quale descrive tutti i protagonisti che hanno condiviso parte della sua vita. Sembra che volontariamente si attenga alla leggerezza di ciò che racconta, quasi staccata, per non soffrire troppo, e per relegare eternamente i suoi ricordi, nel momento preciso del loro accadimento, quasi avulsi dal tempo in cui vengono scritti. 

Lessico familiare vince il Premio Strega nel 1963. Ma sapete una cosa? Nelle mie due grandi e abbastanza recenti enciclopedie della lingua italiana Natalia Ginzburg non viene citata. Farei una protesta!!!

Ma per concludere questo post e per dare spazio ai nostri ricordi faccio una domanda. Quali le parole più significative del vostro lessico familiare?

Io ne citerò solo uno: “Ag vol dla lama” di mia nonna Bianca.  La lama era il terreno paludoso formatosi in prossimità di un fiume, nella campagna carpigiana, dove venivano scavati, a mano,  canali e canaletti.  Lavoro durissimo.  Se qualcuno di noi  si lamentava di qualcosa,di un cibo non gradito, di un amoretto infelice, o di qualche dissidio, o crisi pseudo esistenziali, la nonna esclamava

“Ag vol dla lama”.

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