SONO STATA ALICE, di Melanie Benjamin

pubblicato da: admin - 16 Maggio, 2010 @ 6:08 pm

Alice_Liddel_-_Beggar_Girl-thumbscansione0018Ho finito l’avvincente romanzo di Melanie Benjamin con dispiacere. Mi sarebbe piaciuto rimanere ancora dentro il mondo di Alice Pleasance Liddell, l’ispiratrice della famosissima fiaba scritta da Lewis Carroll. Ha ragione Cinzia, molte letture ti catturano e ti fanno vivere insieme ai personaggi. Staccarsene  è sentire una perdita.

Entriamo nella Oxford vittoriana, nella famiglia del decano del Christ Church College, frequentato anche dai figli della stessa regina. Il Decanato é il centro sociale di Oxford e la  numerosa famiglia Liddell è la famiglia più importante e privilegiata della contea. Una grande casa, ricchezza,  tantissima servitù, relazioni importanti.  Oltre il giardino del Decanato abita Charles Lutwidge Dodgson un diacono che insegna matematica,  è di gentile aspetto, balbuziente e amante della fotografia.  Egli frequenta la casa dei Liddell dimostrando una spiccata simpatia per le loro figlie. E’ premuroso, le fa divertire, racconta storia e nonsense, le accompagna a fare passeggiate insieme alla severa istitutrice.  Ha pubblicato poesie e brevi racconti con lo pseudonimo di Lewis Carroll.

Questa  biografia un po’ romanzata ha l’ “io narrante”della stessa Alice che  ci fa seguire con interesse la sua affettuosa e  misteriosa relazione con  Mr. Dodgson. E’ divisa in tre parti: la prima inizia nel 1859 quando Alice ha solo sette anni, ma è il periodo durante il quale viene scattata la sua celeberrima fotografia vestita da zingarella. E’ un punto importante della storia in cui  viene evidenziato il rapporto  particolare e un po’ ambiguo fra i due. Alice e le sorelle desiderano l’attenzione di Mr. Dodgson, tanto da diventare rivali per essere ammirate e prese in considerazione. Lui preferisce Alice con la quale ha un’intesa complice, un segreto da condividere…ci viene raccontato che la foto viene scattata dopo una piacevole e libera  corsa a piedi nudi tra l’erba.  Dogson fa vestire Alice con pochi stracci e riesce a ritrarla, forse  perchè sollecitata dalla sua amorevole attenzione, con già una intensa civetteria femminile nello sguardo.  Sembra che si capiscano: lui ancora bambino, lei quasi donna.

“Guardai Mr. Dodgson. Era appoggiato alla sua macchina fotografica e mi osservava con uno di quei suoi sorrisi seri e tristi sul volto. Mi disse “Vai ora, corri. Corri quanto vuoi, rotolati per terra, se vuoi..” Mi rotolai nell’erba come un animale selvaggio. Non c’era nessuno a dirmi “Alice, non ti sporcare” …C’era solo Mr. Dogson, che mi osservava, osservava sempre.”

 Tre anni dopo, durante una gita in barca sul fiume Isis, Mr Dogson inventa per  le sorelle Liddell  la famosa fiaba di “Alice nel paese delle meraviglie”. Alice ne è lusingata perchè è dedicata a lei,  e gli chiede di scriverla, “così non sarò costretta a diventare grande. ” E’ l’infanzia l’anello che li lega…Ma li legherà per sempre  anche il libro che, appena stampato e pubblicato, diventerà uno dei libri più letti al mondo; sembra fosse uno dei preferiti della Regina Vittoria. Sarà infine la vendita all’asta, nel 1928, dello stesso manoscritto a salvare dalla rovina economica Alice, ormai vedova e anziana.

Succede qualcosa subito dopo la pubblicazione del libro che farà sì che la signora Liddell allontani  per sempre Mr. Dogson dalla sua famiglia…troppe attenzioni…domanda di matrimonio? …una particolare situazione imbarazzante? Non si sa con certezza. Rimane un punto oscuro che sembra abbia influenzato l’intera esistenza di Alice Liddell.

Da raccontare ci sarebbe tantissimo, ma non posso fare il riassunto del libro. Posso dire che Alice prima di sposare un gentiluomo di campagna ha una  breve relazione con Leopoldo, figlio della regina Vittoria; che  avrà tre figli, due dei quali saranno uccisi sul fronte occidentale.

Una vita intensa, piena di incontri importanti , fra cui anche  quello con John Ruskin qui descritto come un personaggio ambiguo e irascibile.

Ma certamente ciò che ha definito la sua vita  è stato l’incontro con Lewis Carroll che ha fuso nella sua fiaba la vera Alice con  quella immaginaria, facendole oltrepassare lo specchio delle possibilità impossibili.

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GENOVA DI TUTTA LA VITA, città del cuore

pubblicato da: admin - 15 Maggio, 2010 @ 6:26 pm

scansione0017Se Trieste azzurra e ventosa, per me, rappresenta la soglia per partire  in orizzontale verso un “Pellegrinaggio in Oriente”, cioè verso un infinito sconosciuto e, come scrive Hesse, verso un’altra dimensione, Genova è il salire e lo scendere dentro di me.  Più leggera Trieste in cui mi sento “zingara”e pronta ad un’altra realtà dalla mia realtà. Più faticosa e intensa Genova che è la città conosciuta insieme al mio amore. Città circoscritta ormai nella mia storia e verso la quale porgo ancora resistenza per non affondare nella nostalgia.

 Città fatta di vicoli e di salite come la mia memoria.  “Con le sue salite, le sue rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le sue funiculari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è infatti una città tutta verticale: Verticale e quindi, almeno per me, lirica, se non addirittura onirica” scrive Giorgio Caproni  che seppur nato a Livorno si è sempre sentito genovese, essendosi trasferito nel capolugo ligure a 1o anni.

E genovese si sente la mia amica del mare, Renata, che mi ha regalato questo bellissimo libro con Tutte le poesie “genovesi” di Giorgio Caproni. Ogni tanto al telefono mi dice “Vedo le navi andare sul mare” oppure “Sono davanti ad un’antica chiesa sotto la luna”….ed io la invidio e le ribatto che ho sempre e solo il condominio grigio davanti a me.  E penso che se fossi là scriverei tanti versi in più.

“Qui forse potrei vivere, / potrei forse anche scrivere: / potrei perfino dire: qui è gentile morire / 

Genova mia città fina: / ardesia e ghiaia marina. / Mare e ragazze chiare / con fresche collane di vetro / (ragazze voltate indietro, / col fiasco, sul portone / prima di rincasare…/ scrive Caproni.

Ho “conosciuto” Genova quando mi imbarcai per la mia prima crociera come hostess. Subito conobbi  il mio futuro marito, il pianista di bordo che una sera, rimasti soli con qualche amico dell’equipaggio,  si mise al pianoforte e mi cantò “Ma se ghe pensu…alua mi vedo u maa…vedo a lanterna…”. Mi colse uno struggimento intenso e mi innamorai di lui, del mare, di Genova.

La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, sul porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale /di lamiera dei tetti…

E il vecchio porto divenne per me e mio marito il punto d’incontro quando navigavamo divisi… lui arrivava ed io l’attendevo sul molo, o viceversa, io a prua che lo cercavo tra la folla, con emozione, e mi sentivo come la “Donna che apre riviere“ 

Sei donna di marine, / donna che apre riviere, / L’aria delle mattine /bianca, è la tua aria / di sale – e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare.”

Ma Genova  più tardi ha significato  anche gli incontri con i  cari amici, il pesce mangiato a Caricamento dopo i miei esami universitari andati bene, la visita all’Acquario con Stefania, le passeggiate ad Albàro, dove soggiornarono Dickens e Byron.  In “Tutte le poesie genovesi” di Giorgio Caproni   ne troviamo anche una intitolata “Albàro” 

 Se al crepuscolo, almeno, / ci fosse, dietro i vetri, il mare…/ Amore…/ Tremore /in trasparenza…/Se almeno /questo fosse il rumore / del mare…/ Non / lo sopporto più il rumore /della storia…/ Vento / afono…/Glissando…/ Sparire /come il giorno che muore / dietro i vetri…/ Il mare…/ Il mare in luogo della storia…/Oh, amore.

Mio marito quando le prime volte  mi portava in giro per Genova mi spiegava della particolarità dei suoi abitanti, delle donne forti che riuscivano a stare in piedi sui tram traballanti, dei “camalli” del porto, della focaccia che si mangiava per strada e mi faceva notare l’odore dell’aria, un misto di catrame, di jodio, di salsedine…

Scrive Caproni :”Questo odore marino / che mi rammenta tanto/ i tuoi capelli, al primo / chiareggiato mattino./ Negli occhi ho il sole fresco / del primo mattino . Il sale / del mare../ Insieme/ come fumo d’un vino, / ci inebriava, questo / odore marino/ Sul petto ho ancora il sale / d’ostrica del primo mattino.

 

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LA META' DI NIENTE, e sempre di amore si scrive

pubblicato da: admin - 14 Maggio, 2010 @ 6:57 pm

scansione0015E’ l’amore che fa girare il mondo si sa, amore per la vita in generale, per gli altri e l’amore di coppia. E di quest’ultimo si sono scritti migliaia e migliaia di romanzi, soprattutto sul matrimonio. Catherine Dunne, dublinese, esordisce qualche anno fa proprio con questo romanzo sul matrimonio, un matrimonio finito. Raccontata sotto forma di diario e con molti flash back, questa vicenda coinvolge i lettori, diciamo lettrici per lo più, per il suo linguaggio chiaro e le descrizioni quasi fotografiche degli avvenimenti. Storia consueta: il marito, Ben,  di punto in bianco dice alla moglie Rose che non l’ama più e la lascia sola con tre figli e pochi soldi. Questa scena drammatica si svolge in cucina, luogo privilegiato della casa e luogo simbolo della donna, lare del focolare. Ma luogo anche di costrizione, relegamento, fissazione di un ruolo prestabilito e accettato per amore e consuetudine.

Dopo la disperazione, la disillusione, lo sgomento, Rose, come tante donne, trova la forza per iniziare un nuovo cammino che la porterà alla consapevolezza di sè attraverso risorse che scopre di possedere.  Proprio dalla cucina-prigione nasce la nuova Rose, non più metà di niente come quando è stata lasciata, ma persona completa , libera e gioiosa.

Eppure quante donne ancora si sentono realizzate soltanto all’ombra del compagno! E se venissero abbandonate  si ritroverebbero spezzate come la teiera dell’immagine di copertina! Se nell’Ottocento le  mogli deluse dovevano sopportare in silenzio le eventuali sofferenze, i soprusi, lo sbriciolamento della propria individualità per mancanza di autonomia economica, oggigiorno  ci si può liberare. Conosco donne che lo hanno fatto, a costo di sacrifici, pur di riappropriarsi della propria dignità e della propria libertà interiore. Altre invece non riescono a staccarsi dall’uomo-sicurezza e accettano di essere le mogli-stuoino soffocando ogni desiderio o anelito di esprimere se stesse.

Fortunatamente c’è anche la via di mezzo: quella dei matrimoni tranquilli, basati sull’amore, stima, rispetto, amicizia.

E’ un argomento questo che tocca tutte noi, sposate e non sposate perchè mette in discussione quanto di noi siamo disposte a “cancellare” per un uomo. A me verrebbe da dire “niente”. Si può essere tolleranti, comprensive, ma occorre essere se stesse…trovo che sia più onesto. Ma non voglio pontificare. Ognuno di noi forse sceglie il modo di vivere che risponde a una propria esigenza.

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L'ETA' DELL'INNOCENZA, di Edith Wharton

pubblicato da: admin - 13 Maggio, 2010 @ 9:17 pm

scansione0014E poi c’è il fascino rassicurante della borghesia con le sue regole, i suoi riti, i conformismi. Se ne è schiavi, ma si ha davanti una strada già tracciata. Altri decidono per te. Per essere liberi di scegliere autonomamente occorre avere molto coraggio. Spesso nella mia giovinezza un po’ girovaga sentivo dei cedimenti e mi rifugiavo negli ambienti letterari borghesi per riposarmi da me stessa e per provare un tranquillo affidamento in consolidate regole di vita. Adoravo leggere i romanzi inglesi naturalmente dove era quasi un imperativo categorico bere il tè delle cinque, cambiarsi per la cena e seguire il codice “scritto” per  ogni  classe sociale. Per appartenere all’alta borgesia , oltre al patrimonio, bisognava non cambiare nulla.

Certo oggi i tempi sono diversi, ma talvolta mi accorgo che il conformismo che io sento obsoleto esiste ancora . Ricordo tanto tempo fa quando con alcune signore si discusse del L’età dell’innocenza mi meravigliai che alcune di esse parteggiassero per May, la moglie di Newland Archer anche se lui  era innamoratissimo di madame Olenska. Naturalmente io e poche altre (romantiche? anticonformiste?) ritenevamo più onesto, giusto che l’amore appassionato tra Ellen e Newland avesse buon fine. In fondo pensavamo che May sarebbe stata consolata dalla sua grande e ricca famiglia aristocratica. E che nella vita di ognuno, che sappiamo essere breve e unica, si dovessero cogliere i doni preziosi che ci vengono offerti.

Ellen Oleska mi piaceva molto di più che l’apparente remissiva May che pur sapendo della sofferenza del marito riesce a riportarlo in seno alla famiglia, ricattandolo proprio nel suo essere leale, “Non serviva a nulla cercare di emancipare una moglie che non aveva il più pallido sospetto di non essere libera…Ma con una concezione del matrimonio così scevra di complicazioni e di curiosità come quella di May, una crisi simile  si sarebbe ormai potuta verificare solamente se provocata da qualcosa di veramente offensivo nella condotta del marito… Newland Archer sapeva che qualunque cosa potesse accadere, May sarebbe sempre stata leale, coraggiosa e priva di rancore, e questo lo obbligava all’esercizio delle stesse virtù”

Quella rigida  società newyorckese  non consentiva di affermare la propria personalità e individualità soprattutto alle donne, anche se volitive e libere. Madame Olenska è un’eccezione, ma in questa bellissima storia è l’uomo che è incapace di affrontare la dura realtà dell’ostracismo sociale per raggiungere la sua felicità. Il mondo dorato dell’aristocrazia di fine secolo ci viene raccontato in modo sublime da Edith Wharton che con questo romanzo, nel 1921, vinse il Premio Pulitzer. Certamente in questi racconti si sente la  solitudine dorata della stessa autrice che prova a svelare “la pena della propria malinconia di donna innamorata di un amore impossibile, in una società che tace quando vuole fingere di non capire e parla inesorabilmente quando intende proibire.”

May è la rigida rappresentante di quel mondo privilegiato, ma soffocante; è l’orgogliosa portabandiera del suo ceto. “Non voglio che pensino che vestiamo come selvaggi” dice con disprezzo mentre sceglie il guardaroba. E Newland rimane colpito “dal rispetto delle donne americane, anche le meno mondane, per i privilegi sociali  che derivano dall’eleganza nel vestire“. “E’ la loro armatura” pensa “la loro difesa e la loro sfida contro l’ignoto

Però come sarebbe stato riposante vivere tranquilli e prigionieri in quel mondo!  Almeno per un po’! …Prima di scappare come Madame Olenska!

 Ora ho meno velleità di fuga, sto diventando come Dorian, il bellissimo gatto di Maria Teresa, tanto che farmi muovere anche solo per un week end diventa faticoso.

Ogni cosa a suo tempo?  Non saprei dire;  a volte non so neppure io cosa farò. La conoscenza di sè non è una strada chiusa…si va sempre avanti …si può pensare una cosa e poi l’esatto contrario. Insomma …un “fastello di contraddizioni” come diceva Anna Frank nel suo diario. Ma lei aveva 14 anni!

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IN PATAGONIA, e il respiro della libertà

pubblicato da: admin - 12 Maggio, 2010 @ 6:34 pm

scansione0013Perchè mi è venuto in mente il libro di Bruce Chatwin? Perchè mi sono ritrovata nelle parole  di Camilla quando, a proposito di oggetti,  parla  di zavorra e di “liberazione e snellezza dell’anima”. Sensazione, quella di liberazione dei pensieri e dell’anima , che ho sempre provato anche da giovane quando mi distaccavo da mobiletti, oggetti, vestiti. Sensazione di libertà estrema. Mai stata collezionista, se dovessi trasferirmi immediatamente e  portare qualcosa con me a parte qualche  libro,  forse sarebbero le tazze da tè della mamma e niente più, ma forse potrei anche fare a meno di quelle. Ogni volta che sentivo il desiderio di rinnovamento mi staccavo da qualcosa, talvolta anche di cose non mie…non mi perdonerò mai di aver buttato i famosi Barbapapà di Stefania…!

Per me le cose e  l’attaccamento ad esse, sono sinonimi di catene. I ricordi sono impressi dentro di me, non ho bisogno di possedere oggetti. Ma perchè “Patagonia”? Se le cose mi fanno sentire prigioniera, la Patagonia mi dà la sensazione della libertà più vera. L’altrove. Non solo Coleridge e Melville parlavano di questa terra per significare qualcosa di estremo  riguardo ai “nostri confini “, ma anche nell’immaginario popolare  questa terra  significava qualcosa di veramente lontano e sconosciuto. “Ma duel’ andé to pedèr? In Patagonia?” esclamava mia madre quando mio  padre tardava, oppure  ” Me ne andrei in Patagonia” sbuffava quando era stanca.

Quando incontrai questo libro quindi fu amore a prima vista. Rispecchiava un mio modo d’essere.

Viaggiare liberi, senza fardelli questo è sempre stato il mio sogno. Gli oggetti ti definiscono. Per viaggiare occorre essere leggeri, potrebbero bastare anche le sole scarpe a tracolla come quelle che  Chatwin indossa in una famosa fotografia. Il mio animo “zingaro” mi  ha indicato  scelte di vita che mi hanno portato a viaggiare. Ho rinunciato senza fatica  a  più sicurezza materiale, a stabilità, all’accumulo di oggetti. Persino durante i miei viaggi acquistavo pochi souvenirs. Ciò che mi rimaneva erano i famosi “momenti d’essere” che riuscivo a cogliere nel luogo in cui mi trovavo e che sostituivano l’elefantino d’ebano, la collana tunisina, il koboloi greco…

Viaggio metafora della vita. Perchè Chatwin va in Patagonia? Per soddisfare un sogno dell’infanzia. Trovare  un brontosauro di cui si diceva rimanessero  i resti proprio in Patagonia. La prova era un brandello di pelle conservato gelosamente nella credenza della nonna. Scoprirà  invece che quel pezzettino di pelle apparteneva a una specie di bradipo gigante , il milodonte,  ma esso è per il viaggiatore che lo cerca quasi un talismano, uno scopo, la spinta verso l’altrove e la vastità. Siamo negli anni Settanta, Bruce è un giovane ragazzo inglese, amante dei Rolling Stones, dei fossili, della geografia come conoscenza profonda della natura e dell’uomo.  Parte nel 1974.  In questo libro tanti preziosi racconti di persone, descrizioni di un ambiente magico, semideserto “nessun suono tranne quello del vento, che sibilava tra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco…”

Chatwin cerca, oltre al mostro preistorico, anche un parente navigatore. Chiede, fotografa, cammina, si ferma nelle estancias. Ci racconta dei piatti tipici che assaggia, della storia politica del paese, delle leggende. Incontra gauchos, poeti, camionisti, peoni. Ce ne parla in modo chiaro, quasi didattico,  senza retorica.

Ma per tornare al legame con le nostre cose , mi piacerebbe sapere quali sono gli oggetti da cui non riuscireste a staccarvi …io ho ripensato all’incipit del mio post, quindi  ho fatto un giretto per il mio appartamento chiedendomi di che cosa potrei fare a meno…mah, ora che sono più vecchia forse gli oggetti mi servirebbero come boa, come ormeggio, ma se potessi vorrei rinnovare tutto…ex novo…respirare, “senza zavorra”…

 

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UN MESE CON MONTALBANO, di Andrea Camilleri

pubblicato da: admin - 11 Maggio, 2010 @ 9:52 pm

scansione0012Qualche tempo fa ho seguito l’intervista fatta da Fabio Fazio ad Andrea Camilleri. Me la sono gustata. L’ottancinquenne scrittore siciliano ha rivelato tutta la sua intelligenza ed arguzia parlando di sè, del suo mestiere, del suo pensiero. L’ho trovato giovane, ironico, pragmatico e nello stesso tempo immaginifico. Insomma una persona “ricca”, dalla mente colorata, come direbbe Citati. I suoi aneddoti sono veramente spassosi . Il suo senso dell’umorismo si ritrova anche nei suoi romanzi che credo, quasi tutti, hanno letto. Ricordo che feci fatica a leggere il suo primo libro, dovevo abituarmi al suo linguaggio misto, ma poi questa sua peculiarità mi è diventata familiare e mi ha permesso di addentrarmi in tutti i suoi scritti, sia polizieschi che di altro genere.

Il suo commissario Montalbano ormai è un personaggio noto, grazie anche all’azzeccata interpretazione di Luca Zingaretti.

Mi piace vedere e leggere dell’assolata Sicilia in riva al mare, di questo paese bianco e succoso che è Vigàta.

Montalbano sono”…ripetiamo noi lettori di Camilleri. E apprezziamo il carattere deciso, virile e  giusto del nostro commissario. Non solo detective stories, omicidi, misteri, indagini, ma un’atmosfera mediterranea raccontata con amore. Chi non legge con piacere dei piatti di pasta e di pesce che Montalbano gusta preferibilmente di fronte al mare?

In “Un mese con Montalbano“, che  mi è stato regalato dalla mia amica Bruna di cui ho scritto ieri, ci sono trenta racconti che parlano di indagini compiute quando Montalbano muoveva i primi passi nella sua carriera.  Alcune inquietanti, altre sui generis; delitti d’amore, di interesse, di ambizione o di  logorante quotidianità. Li commettono giovani, vecchi, donne, ricchi, poveri, ignoranti, colti. Una varia umanità che si scontra con l’atteggiamento equilibrato  e  con la morale fatalista di Salvo Montalbano.

Titoli come “Guardie e ladri”, “Una faccenda delicata” “L’arte della divinazione” “L’uomo che andava appresso i funerali” ci fanno capire la varietà  delle situazioni in cui il commissario  si trova coinvolto.

E’ utile  (e inutile allo stesso tempo) ripetere che luoghi e nomi sono inventati di ràdica. A chi potrebbe lamentare qualche coincidenza, ricordo che la vita stessa (assai superiore, in fatto d’invenzioni, alla fantasia) non è che una pura coincidenza” conclude Andrea Camilleri.

Che ne dite?

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LE OMBRE DI PEMBERLEY, e i segreti delle case

pubblicato da: admin - 10 Maggio, 2010 @ 5:32 pm

scansione0011scansione0010Parto da questo leggero romanzo di Carrie Bebris per ricordare poi  un’altra storia. Qui si racconta nientemeno che  di Elizabeth e del signor Darcy, sposi da un anno,  che indagano su un mistero.  Gli amanti di Jane Austen possono ritrovarvi gli ambienti, lo stile e gli altri personaggi del famoso “Orgoglio e pregiudizio”. Tutto viene descritto in modo perfetto a partire dalla sontuosa dimora dei Darcy, Pemberley, nel Derbyshire.

Elizabeth è in attesa del primo figlio ed  è consapevole di essere la padrona di una delle più belle dimore d’Inghilterra. “In quel momento sentì che diventare  padrona di Pemberley  avrebbe potuto essere qualcosa“. E’ felice della sua vita con Darcy e con la giovane cognata Georgiana, ma sente prepotente la presenza della loro defunta madre, Lady Anne. Ed è proprio un segreto della suocera che metterà in moto una serie di eventi inquietanti. Tutto però comincia con una lettera scoperta per caso spostando una  scrivania. Ah, i nascondigli segreti delle vecchie case!

Ho ripensato, durante la lettura di queste pagine,  a una mia cara amica di Borzonasca, il paesello ligure dove trascorro le estati. Parlo di Bruna, una signora ultraottantenne che ormai è “disorientata” (come la  cara mamma di Maria Teresa), ma che io ho frequentato tantissimo. Bruna Rera Ginocchio, originaria di Volpedo, era un’accanita lettrice e con lei  io ho trascorso tantissimi pomeriggi a parlare di libri. Le sue opinioni, le sue riflessioni concordavano spesso con le mie. Di lei mi sono sempre piaciute la schiettezza, la decisione, la veemenza. E’ una grande sofferenza averla vista “allontanarsi” dalla realtà circostante; sono certa che, se fosse “ancora con noi”, sarebbe intrigata dal mio blog. Credo però che il libro di cui parlo oggi non le interesserebbe molto, lei non amava leggere di persone che “vivevano di rendita” o che passavano il tempo a spettegolare e a bere il tè, i suoi gusti letterari si indirizzavano maggiormente agli autori italiani, a romanzi forti, epici, ma  mi ascoltava ugualmente con interesse bonario   quando spiegavo del mio amore per  Jane Austen e per tutto ciò che è English.  Mi offriva allora uno sciroppo di sambuco e mi parlava della sua casa. “Ti ho detto, vero, che appena entrata in questa casa mi sembrava di aver scoperto la grotta di Alì Babà?”  Questo era l’inizio dei ricordi della sua vita passata, del grande amore per suo marito militare, della suocera intrigante, ma soprattutto  della gioia di essere entrata, come giovane sposa, in una casa che contraccambiava il suo amore per il passato. Lei accarezzzava i mobili antichi, le poltroncine di velluto, gli oggetti, testimonianza di eventi lontani, con rispetto e amore.  Era rimasta sola abbastanza presto  e parte del suo tempo veniva speso nella ricerca della “storia della casa”. Dove?  Nei vari cassetti, nei salottini al piano terra, tra i libri, o nella soffitta . Talvolta come  benvenuto mi diceva  “Sai  che ho trovato una lettera dei Savoia tra i libri?” oppure ” Guarda che cosa indossava mia suocera quando veniva la Marchesa Tal dei Tali“. Io adoravo ascoltarla e vedere i piccoli tesori ritrovati: bottoncini dell’Ottocento, piume per i ventagli, vecchie collane, lettere sbiadite, conti,  e soprattutto libri , libri antichi. Nel caldo agosto del 1998 trascorremmo quasi tutti i pomeriggi nel salotto al piano terra (più fresco) a sfogliare uno per uno i vecchi tomi. Che piacere, che bei ricordi!

Potenza della lettura:  anche quella di far rivivere momenti intensi della vita di  persone care.

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GITA AL FARO, e la luce che guida

pubblicato da: admin - 9 Maggio, 2010 @ 4:19 pm

scansione0008scansione0007Festa della mamma. Appena apro il PC mi raggiunge  la deliziosa cartolina musicale  di Stefania colma di   parole che vanno diritte al cuore. Cinguettanti uccellini azzurri mettono in agitazione Mimilla dormiente. Il mio sorriso è assicurato, il mio essere mamma accarezzato. Non tutte siamo mamme, ma tutte siamo figlie.

 Tanto si è scritto sul rapporto madri-figlie, sul quel  filo solidissimo che ci traghetta di generazione in generazione. Anche Virginia Woolf, naturalmente, ne scrive . La figura  di sua madre è magistralmente e amorevolmente  ritratta in “Gita al faro”. Mrs. Ramsay, la protagonista del romanzo, è Julia Jackson, sua madre, raccontata a tutto tondo sia nella sua presenza che nella sua assenza. “Gita al faro” è il romanzo più autobiografico della scrittrice inglese, dove si percepisce l’amore e il dolore per una madre persa prematuramente, ma anche inafferrabile durante la sua vita. Una madre bella, laboriosa, dedita agli altri  prima di tutti  al marito, l’esigente accademico Mr. Stephen.  La madre è il centro di tutto, colei che coordina i vari accadimenti del mondo domestico,  su cui  si poggia “la vasta cattedrale dell’infanzia”. Virginia deve accontentarsi di contemplarla mentre viene assorbita da tutti gli altri. Può possederla però ricreandola.

Sì, di certo se domani farà bel tempo“ dice  la signora Ramsay, all’inizio del romanzo,  rassicurando il piccolo James della gita al faro, gita che il padre prevede non si farà per il brutto tempo. Questo rapporto di oppozisione-attrazione fra i due coniugi coninvolge ed attrae  ogni altro personaggio della storia. La madre è il mondo della possibilità, il padre pragmatico sembra ridimensionarlo, ma entrambi si  sostengono a vicenda. Mrs. Ramsay riesce a ricondurre ad armonia le discordanti tensiosi dei vari personaggi, crea unità e diffonde luce. La sua è una guida illuminante per i destini degli altri. Riesce a placare familiari e amici e mette in discussione l’artista, la pittrice Lily Briscoe che altri non è che la stessa Virginia. Come potrà dipingere Mrs. Ramsay, pensa Lily? Alla fine  del romanzo sa di aver compiuto il suo ritratto proprio nell’aver osservato e capito empaticamente il mondo intorno a sè, quando dopo un decennio si potrà finalmente fare anche la tanto desiderata gita al faro. I bambini, già cresciuti, vi giungeranno senza la madre, ma con il concreto padre. E’ attraverso il dominio dei fatti, dei venti, della barca che  si raggiungono le promesse  di Mrs. Ramsay. James, finalmente giunto al faro si accorge che il padre “è una torre rigida sulla roccia nuda“, e ne è rassicurato senza ripudiare l’immagine magica del faro formatasi durante la sua infanzia. Il mare e la terra,  mascolino e femminino si mescolano.

Madre come faro. Credo che lo sia per tutti. Qualcuno se ne può discostare, ma anche per far ciò serve la luce. Non mi stancherò mai di dire quanto importante l’esempio di mia madre sia stato per la mia vita ,non solo, anche quello della madre di mia madre: quella famosa linea femminile di cui sono intessuta e che comprende anche mia figlia.

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MACBETH, e la sete del potere

pubblicato da: admin - 8 Maggio, 2010 @ 8:36 pm

scansione0005Perchè un post su Shakespeare? Per l’Occasione. Il gruppo dell’Accademia oggi era in “trasferta” al Mart di Rovereto per la bellissima mostra “Dalla scena al dipinto”. “La magia del teatro nella pittura dell’Ottocento.” Sono  felicissima di essere riuscita ad andarci perchè  stamattina, dopo una notte seminsonne causa il  mal di gola e un raffreddore incipiente,ero preda di un dubbio amletico (…è il caso di dirlo, rimanendo in tema shakesperiano) ” Sto a letto o vado“?  Ma Riccardo, Maria Teresa e Cristina mi sono venuti a prendere e al museo abbiamo incontrato gli altri. Umberto ci ha illustrato le parti più importanti della mostra che è veramente godibilissima: quadri tratti da opere teatrali come melodrammi, tragedie, commedie, ritratti di attori , tutti opere di grandi artisti come Delacroix, Fuessli, Degas. David, Sargent…C’è anche un bellissimo ritratto di un attore dipinto da Klimt. Ma per la maggior parte sono le opere di Shakespeare che hanno ispirato  i pittori. Uno stupendo e drammatico “King Lear che scaccia Cordelia” di  Heinrich  Fuessli, “La prima follia di Ofelia” di D.G. Rossetti, una sognante Titiana nel bosco con Bottom, Puck… e  questa bellissima attrice, Ellen Terry, che rappresenta  Lady Macbeth nel momento esaltante della conquista del potere. L’ha dipinta J.S. Sargent.

Macbeth è una delle “grandi” tragedie di William Shakespeare in cui è tangibile il senso dell’orrore per gli assassinii, i rimorsi e il terrore del protagonista. Sembra che un bonario  Macbeth regnò effettivamente in Scozia, ma il Macbeth di Shakespeare riassume una storia di degradazione di un animo dapprima chiamato alla virtù, poi ottenebrato dall’ambizione e dalla brama di potere. Egli non è il solo a  macchiarsi di orrendi delitti: la sua donna, Lady Macbeth ne divide la sorte, serbando per sè la parte più ingrata. Lei è ossessionata dal desiderio di grandezza e questo dipinto di Sargent ce la raffigura nel momento quasi estatico della sua conquista. 

Shakespeare ce la descrive come una fredda calcolatrice in cui il bene apparente del rimorso ( il lavaggio notturno delle macchie di sangue sulle mani) non la redime dal male. Riserva più pietà umana per Macbeth.

Shakepeare maschilista? Lady Macbeth diabolica, Ofelia pazza, Caterina da domare, Desdemona succube, le sorelle di Cordelia cattivissime …solo le Comari di Windsor riescono a fronteggiare Falstaff?

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DA UNA STANZA ALL'ALTRA, di Grazia Livi

pubblicato da: admin - 7 Maggio, 2010 @ 7:33 pm

scansione0003Se un giardino è il nostro spazio interiore da cercare, curare ed esserne confortati, “una stanza tutta per sè” è una necessità, soprattutto per noi donne, e non solo per quelle che amano scrivere. Partendo dal celebre lavoro di Virginia Woolf in cui si ripercorre la difficoltà per una donna ,sempre assillata da doveri quotidiani, a ritagliarsi uno spazio per la propria riflessione, Grazia Livi ci introduce nella vita di altre famose scrittrici che hanno tentato di liberarsi dai lacci del “dovere femminile”. Si parla di scrittrici dei secoli passati… ma oggigiorno la donna in generale  è riuscita a conquistarsi la “stanza tutta per sè”, sinonimo di libertà interiore, senza sentirsi colpevole?

Per Virginia Woolf, “ la stanza con poltrona”è il suo guscio che l’avvolge, la protegge dalle sue “voci” pericolose ed è uno  spazio personale che diventa più denso, più intriso di pensieri. Ed è anche lo scudo legittimato del suo isolamento. Sa di essere separata dagli altri, come “uno strumento raro che non conosce il segreto per fondersi al coro”. La sua personalità vacillante ha estremo bisogno, come di una medicina, di raccoglimento, ripiegamento dentro uno spazio in cui scrivere per capirsi e rimarginarsi. Lei , sappiamo, è ciò che scrive.

Per Jane Austen, invece, la stanza per sè, è sempre di passaggio. Riesce ad appoggiarsi agli angoli del  tavolo dopo il breakfast, quando finalmente è sola. Provvisoriamente!  Jane ha un suo ruolo nella vita familiare e  come tutte le donne è intrisa di “docilità” e cioè lascia aperto il proprio animo affinchè chiunque possa “entrarvi ed uscirvi”. Genitori, marito, figli, nipoti. E’ permesso un ritiro interiore e personale soltanto a chi entra nel chiostro o nella malattia. Jane si adegua ai suoi tempi. Si accontenta dunque,  per scrivere i suoi splendidi romanzi ,di angoli vuoti, di brevi spazi temporali solo suoi. Ma  grazie alla scrittura”sfugge” al dominio del mondo che l’attornia,  diventandone lei stessa il deus ex machina  che lo apre e chiude a suo piacere.

 Emily Dickinson  di cui abbiamo già parlato a lungo, si “imprigiona” nella stanza al piano di sopra per essere libera. Non ha altra soluzione. Veste la maschera della mansueta ragazza di buona famiglia ottocentesca per lasciare spazio alla sua precipitosa e veemente vita interiore scrivendo nella sua “stanza”. Emily riesce ad estraniarsi dal mondo circostante per rimanere arroccata al suo tempo privato. Non a caso, fino a quindici anni, ha finto con il padre di non saper leggere l’ora. E’ abile a usare tutte le strategie per essere “libera” e concentrarsi sulle proprie emozioni.

Che necessità questo spazio temporale!  Avere la mente sgombra da pensieri contingenti e cercare di rinascere ogni volta nella nostra essenza. In primavera mi accorgo di averne ancor più bisogno, come di un ricostituente. La “stanza” però si sposta: può essere il mio salotto o un giardino o un semplice “fermarsi”, sorda ai richiami, per avere la possibilità di rimescolare gli accadimenti , i pensieri, le emozioni.

In questo saggio si parla anche di Katherine Mansfield, donna libera, ma che trova nella sua “stanza” l’interlocutore più intimo. Con se stessa Katherine si sente appagata.

 E poi Anais Nin e  Caterina Percoto di cui non ho letto ancora nulla.

 Grazia Livi conclude dicendo che la “vera stanza”, cioè la libertà, richiede coraggio. Occorre uscire dal sicuro, dal protettivo, dall’abituale, dalla nicchia di una vita diminuita e prorompere in una singolarità che può risultare poco gradita agli altri.” E’ lasciare un sentiero laterale per arrivare al centro di sè,  e quindi al diritto a una stanza. E quasi sempre nel silenzio in cui affiorano le cose remote e sommerse le parole diventano scrittura.

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Lettura come  stimolo per riflettere sulla vita in generale, trarne coraggio e consolazione. Questo è lo spirito del blog.

 

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