IL ROMANZO DELLA GUERRA CIVILE, di Giampaolo Pansa

pubblicato da: admin - 21 Luglio, 2010 @ 9:52 am

Romanzo_guerra_civile-Pansa_1[1]Ecco un altro libro letto da Riccardo che presento volentieri in quanto si cambia finalmente argomento.  

Inoltre è un validissimo aiuto per oggi, giorno della nostra  grande partenza per la Liguria… con un sacco di roba (sempre troppa e già immagino inutile) ,  gatta compresa ( lei utilissima!) Spero di riuscire a continuare il mio impegno-blog  dal paesello verde dell’entroterra.

Giampaolo Pansa

Il romanzo della guerra civile

Sperling Paperback, Frassinelli Editore, ottobre 2009

833 pagine, €19,90

 

 

Dopo l’8 settembre, a Genova, i tedeschi invitarono a cena alcuni ignari carabinieri. Fra questi vi era il mio babbo. Improvvisamente, fra una portata e l’altra, comparvero i mitra: “State con noi o la prigionia. Scegliere, aber schnell auch!”. Il mio babbo si è fatto due anni di campo di prigionia in Germania. Questo, per dire con quale delle due culture del dopoguerra io sono stato nutrito.

Un rimpianto? Non avere capito il valore di quelle banconote tedesche che egli aveva ricevuto per i lavori che svolgeva nel campo tedesco, lavori eseguiti “spintaneamente” s’intende. Erano “banconote di guerra”. Ricordo che babbo, al suo ritorno a casa, le aveva date a noi bambini per giocare, cosa che abbiamo fatto, senza capire – e come avremmo potuto? – quale valore avevano e soprattutto avrebbero avuto in seguito. Non mi riferisco certo al valore venale, ma a quello testimoniale di una parte importante della vita del mio babbo. Peccato …

Lavori? Quali lavori? Ovviamente quelli che gli venivano comandati, come, ad esempio, caricare un motore d’aereo su di un camion senza disporre di una gru. Come si fa? Si scava una fossa, uno scivolo, entro il quale si fa entrare a retromarcia il camion. Poi, usando grossi pali come leve, si ribalta letteralmente il motore sul pianale del camion. Ah, questi Italiani, una ne fanno ed una ne pensano. Organizzati no, ma inventivi si.

Cosa ricevettero babbo e i suoi colleghi in cambio? Un enorme mastello di marmellata, tanto era “andata a male, con la muffa sopra” dicevano i Tedeschi. Ma gli Italiani, recatici dietro la baracca, ripulirono la marmellata dal leggero velo superficiale di muffa e fecero una scorpacciata di ottime e gustose calorie.

Ma ritorniamo a noi. Nonostante la premessa, io apprezzo Pansa. Revisionista? Se per revisionismo si intende la sovversione della storia, no, non lo accetto. Ma se per revisionismo si intende il completamento di alcune lacune della storia, beh, allora questo è accettabile ed anche giusto direi.

In questo senso mi sento di suggerire il volume che sto citando.

Dal 1943 in poi, tre bei romanzi ambientati in un ambiente storico ricostruito con precisione. Le donne, poi, ne sono le protagoniste. Già, perché quando si pensa alla guerra ed al dopoguerra, si parla di fascisti, di partigiani, di tedeschi, tutti al maschile. Eh no, signori, c’era anche l’altro sesso a soffrire, a sperare, a lottare.

E poi, si tratta di un libro scritto bene, che si legge volentieri, che avvince. Insomma, a mio giudizio è un arricchimento, sia letterario che storico. Buona lettura

 

Riccardo Lucatti, classe 1944

 

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IL CONTRABBASSO, di Patrick Suskind

pubblicato da: admin - 20 Luglio, 2010 @ 6:32 pm

scansione0010 Ancora uno scritto sulla musica in attesa del post di Camilla. Questo è un libretto breve, di veloce lettura, un monologo di un musicista frustrato.  Il sottotitolo recita “Un fulminante monologo contro la vanità dei primi violini”, ma a me sembra soprattutto che venga sottolineata la solitudine umana che può essere raccontata sia da un controbassista, come in questo caso, ma anche da un’altra qualsivoglia persona.

Le scelte obbligate, le frustrazioni, le delusioni, la sensazione di inadeguatezza sono sentimenti che tutti possiamo provare. L’ Orchestra di stato può essere la nostra società e dentro di essa, oltre i primi violini, ci sono coloro che non riescono ad emergere nel modo desiderato o prescritto dagli altri…

Il nostro musicista, ancora giovane, che beve birra  mentre parla di sè e sfoga la sua acredine, il suo senso di disagio a voce alta ad un immaginario o reale interlocutore, è innamorato non dichiarato di Sarah, il soprano dell’orchestra, dalla voce ammaliatrice. Pensa che forse farà un colpo di testa durante il prossimo concerto: dalla terza fila dove suona urlerà il suo nome  “Sarah”, così sarà visto, licenziato come un…direttore d’orchestra…avrà fatto qualcosa sotto la luce dei riflettori.

Racconta della sua  scelta  musicale come una forma di ripicca verso i genitori da cui non si è mai sentito amato.

Contrabbasso, strumento grosso, imponente, è una base per l’orchestra, e per lui è il suo scudo, ma anche il suo impedimento. Lo sente anche come un corpo femminile attraverso il quale  trasmettere il suo eros, i suoi sentimenti frustrati, la sua infelicità.

Ora, il contrabbasso è senz’altro uno strumento femminile – ma mortalmente serio. Come certo anche la morte – siamo al valore sentimentale di tipo associativo – è femminile nella crudeltà del suo contenere, o, se si preferisce, nella sua inevitabile funzione di grembo materno; d’altra parte anche come complemento del principio vitale della fertilità, della terra natale e così via, non ho ragione?”

“Anche se non sembra, il contrabbasso è di gran lunga lo strumento più importante dell’orchestra. “ ci ricorda il protagonista nel suo desiderio  di rivincita. La sua amarezza è desolata, ma piena e “ebbra”. Le sue frustrazioni sono mescolate ad accenni musicali, a Brahms, l’unico che ha suonato il contrabbasso, a Mozart , Beethoven, all’inviso e antipatico Wagner, insomma al mondo della musica…musica eterna…come diceva Goethe “La musica è così in alto, che nessuna mente può afferrarla, e da essa si sprigiona un effetto che domina tutti e di cui nessuno riesce a rendersi conto.”

Quindi ci dispiace per la depressione di questo concertista, ma sentiamo in fondo in fondo al suo animo , il grande aiuto che l’arte gli dà e darà sempre.

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DIARI E LETTERE di ARTHUR SCHNITZLER

pubblicato da: admin - 19 Luglio, 2010 @ 9:55 pm

graz 2010 009L’anno scorso ho letto appassionatamente “I diari” di Arthur Schnitzler, scritti che mi hanno dato un immenso piacere e arricchimento. Come già ho detto più volte la diaristica è un genere che adoro, soprattutto se a scrivere di sè sono gli artisti o persone particolarmente sensibili. Naturalmente ci sarebbe da parlare moltissimo della vita di Arthur Schnitzler, del suo pensiero, delle sue opere, ma senz’altro ci sarà occasione di farlo nei prossimi mesi. Freud lo ammirava moltissimo, gli scriveva che lo sentiva quasi il doppio di sè, tanto l’introspezione psicologica era acuta e sincera.

Scelgo questo libro oggi perchè sono appena tornata da Graz , da quell’Austria Felix che tanto ha dato al mondo dell’arte.

Austria  verde, ordinata anche oggi e Graz città particolarmente ridente e aperta alla modernità pur conservando tradizioni e monumenti antichissimi. Proprio nel 2003 fu capitale della Cultura Europea e in quell’occasine vennero costruiti sia la bizzarra Kunstshaus, una sorta di dirigibile  blu pieno di oblò e  una conchiglia galleggiante in mezzo al fiume Mur. Qui si trova un delizioso caffè avveniristico dove mi sono rinfrescata dalla calura di queste esate afosa.  Sono salita anche ad ammirare  la Torre dell’orologio, l’antica Uhr Turm, simbolo della città. Nel centro storico di Graz comunque sono visibili tantissimi stili architettonici, dal Medioevo al XXI secolo, tanto che l’Unesco nel 1999 l’ha innalzato a Patrimonio culturale dell’umanità.

Tutto questo mentre Stefania provava Shubert nel  bellissimo castello di Eggenberg immerso in  uno splendido parco pieno di pavoni.

Il concerto di Stefania, nell’ambito  di Styria Arte, è stato apprezzatissimo, così mentre tornavamo verso casa attraversando la verde Val Pusteria, io pensavo già a ciò che avrei scritto nel mio diario. Le bellezze della città, l’emozione della musica che mia figlia è riuscita a trasmettere, le ore passate nell’albergo fresco di aria condizionata, i pasti nei localini accoglienti, l’ansia e le nostre risate. Insomma la mia vita mescolata alla sua.

Ho ripensato anche ad alcune frasi di Schnitzler che avevo trascritto proprio sul mio diario e in cui in parte mi ritrovo. Scriveva di sè nel 1915:

“I miei difetti originari: impazienza, eccitabilità. Il mio bisogno di sincerità è totale, che al presente non posso soddisfare del tutto. Desiderio autobiografico. Non per vanità, ma piuttosto per un senso di solitudine…”

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MOTIVO D'ALLARME , di Eric Ambler

pubblicato da: admin - 18 Luglio, 2010 @ 10:52 pm

                         La letteratura gialla è sempre gradita, ci permette di   evadere completamente   dalla               quotidianità e ci regala spesso qualche brivido. 8845920313_small[1]Eric Ambler è un autore che anch’io apprezzo molto. Grazie quindi,  ancora una volta a Riccardo che mi ha rifornito di parecchi post prima di andare sull'”isola deserta“.

 Appena tornata da Graz con Stefania reduce da un intenso concerto di Schubert , credo che me ne andrò a letto, ma  riesco a  a mantenere la tabella di marcia, grazie proprio a Riccardo..

Eric Ambler (1909-1998) è scrittore, giornalista e sceneggiatori di film, fra cui spicca il famoso Topkapi.

 

Spionaggio. Normalmente siamo abituati a vedere inquadrati questi racconti in Russia, Stati Uniti, Germania dell’Est etc. I protagonisti si chiamano Callaghan, Smith, McPerson, Billy etc.. Qui no. O almeno, non solo.

Uno scrittore inglese ambienta un romanzo (ma sarà poi solo un romanzo?) nella Milano fascista e poi nel nord est italiano e accanto agli immancabili Marlow, Ferning, Vagas troviamo i “nostri” Bellinetti, Venezetti, Marinetti.

Dall’Inghilterra a Milano. In una Milano nebbiosa com’era una volta, per chi l’ha conosciuta anni fa, come me, quando di sera, respirando attraverso un fazzoletto bianco, quel bianco pian piano spariva …

In una Milano che ti si svela, come città “capace” anche di questo, e pertanto assai meno provinciale di quanto taluno la voglia far apparire rispetto alle grandi metropoli europee.

La trama è sicuramente coinvolgente in quanto il lettore può molto più agevolmente riconoscersi nell’ambiente e quindi immedesimarsi nella vicenda.

Dello stesso autore altri romanzi, tutti consigliabili: Epitaffio per una spia, (1938; Adelphi 2001); La maschera Dimitrios (1939; Adelphi 20009; Il processo Deltchev (1951; Adelphi 2002); e altri ancora.

Tutte ottime letture estive.

 

Riccardo Lucatti

 

 

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I FOGLI DEL CAPITANO MICHEL, di Claudio Rigon

pubblicato da: admin - 17 Luglio, 2010 @ 1:38 pm

Oggi parto per Graz con Stefania , lo faccio  con tranquillità  perchè Luigi mi ha spedito le sue impressioni su un interessante e appassionante libro. Questo suo post, vi accorgerete, è veramente molto sentito e sembra che il racconto di Claudio Rigon sia un po’ quello di  Luigi che  già  da anni  cerca, raccoglie e conserva per tutti noi testimonianze preziose.

Ci scrive Luigi Oss Papot

 Per quanto mi è possibile finalmente, porto anch’io un po’ di sollievo alla prof contribuendo con un nuovo post. Dico finalmente perché solo ora ho trovato il tempo di scrivere, prima preso dagli esami di maturità, poi dal lavoro che è cominciato lunedì scorso.

Ovviamente i miei contributi si possono definire “monotematici”, ma in futuro se trovassi l’occasione potrei anche parlare di altro, attinente al mio percorso di studi, quindi materiali latini e greci. Ma si vedrà.

Intanto, oggi si parla sempre di Grande Guerra, ma da un altro punto di vista, che anche mi appassiona e che presumo sarà la mia strada per i prossimi 3/5 anni all’università, ossia dal punto di vista degli archivi storici.

Il libro che presento si intitola “I fogli del Capitano Michel” di Claudio Rigon, professore di fisica in una scuola superiore.

All’inizio c’è un ritrovamento, nell’archivio di un museo: alcune piccole fotografie di soldati. Anche se sparse fra altre, qualcosa le unisce e le rende riconoscibili: un certo carattere, una sorta d’ingenua semplicità. Sul retro, a matita, è annotato sempre lo stesso nome: Michel. Un nome che diventa come una traccia da seguire.

Quelle fotografie fanno tutte parte, insieme a carte, lettere, documenti, di una stessa donazione. Una delle buste della “donazione Michel” contiene anche un blocco di fogli, di misure diverse, ripiegati a metà. Dicono di pattuglie in perlustrazione nella notte davanti alle trincee austriache, dell’arrivo del rancio, di un bombardamento, di morti. Dicono anche che si è davanti a Monte Ortigara, in quei luoghi che i lettori conoscono grazie a Mario Rigoni Stern ed Emilio Lussu.

Sono messaggi, in gergo fonogrammi, con cui alcuni reparti di un battaglione alpino si erano comunicati disposizioni ed informazioni. Come delle telefonate, scritte però a mano da alcuni ufficiali, e recapitate da portaordini. Vanno dal 24 giugno al 29 luglio del 1916, un mese. Proprio allora il capitano Michel, appena promosso, era giunto a prendere il comando di un battaglione decimato, rimasto quasi senza ufficiali. Nella vita civile era insegnante di storia e filosofia.

Claudio Rigon legge e rilegge quei fogli, comincia a metterli in ordine, per data e per ora (quando sono indicate) poi procedendo per riferimenti incrociati. Cerca di inquadrare ogni dettaglio in un contesto, viaggiando da un libro all’altro, ripercorrendo a piedi gli stessi luoghi. Quei fonogrammi in fondo sono solo minuscoli frammenti della vita di quelle giornate. Eppure nel leggerli Rigon vi scopre un ritmo, un movimento, sente che si compongono in un flusso. Segue quel flusso e dà voce alla carta, una voce esatta, mai retorica, mai invadente, scarna e poetica.

Di pagina in pagina, prende vita un intero mondo, un’intera umanità. Sono quei fonogrammi, più ancora delle fotografie (che non sono riprodotte nel libro non a caso), a restituirci una storia apparentemente lontana, una storia di guerra. Ma soprattutto una storia di uomini, spesso giovanissimi, che si sono ritrovati a vivere l’orrore ma anche la normalità del fronte. Alla fine si ha la sensazione che siano proprio quei soldati a dire di sé, a raccontarci senza volerlo qualcosa d’importante.

Dice Rigon: “Ogni biglietto mi colpisce, su ognuno mi soffermo. Quando ne prendo uno in mano mi accorgo che non lo trattengo con le dite – solo un attimo per sollevarlo: lo lascio come sospeso nel cavo della mano, lo soppeso, lo interrogo. È stato scritto da uomini che erano i nostri nonni (per me, per la mia generazione), che si sono trovati lassù, in quei luoghi, fra quelle pietre, su queste nostre montagne, a vivere qualcosa che è difficile anche pensare, ora, essere stata possibile”.

 

È un po’ la stessa cosa che faccio io ogni volta che prendo in mano le cartoline che mio bisnonno scriveva a casa dalla prigionia in Siberia, di cui ho già scritto nel mio primo post.

È una sorta di rispetto verso quello che è stato, da recuperare ma anche e soprattutto da conservare e tramandare.

È quello che è stato fatto a Pergine da un mio amico che ha redatto un libro che verrà presentato il prossimo 10 settembre (sulle genealogie perginesi “rivisitate”). Anche di questo ho già parlato, ma ora che sto svolgendo il mio apprendistato proprio in canonica, sua “fucina”, ne sono ancora più coinvolto, e ci intratteniamo in lunghe ed appassionate chiacchierate

 

Dato che poi si è parlato di poesia, concludo con una poesia di Emma Valcanover, perginese, che inquadra il lavoro che io, nel mio piccolo, che il mio amico sta svolgendo ed ha già svolto, che insomma svolgono tutti coloro che fanno luce sul passato. Si intitola “Bisnono”, è in dialetto (spero che comunque sia comprensibile), ed apre proprio il libro sulle genealogie. “Si parla di alberi, rami, radici, generazioni… un messaggio di dialogo e speranza, “ultima dea”, come la chiama Ugo Foscolo ne “I sepolcri”.”

 

BISNONO

 

Vèi chi… vèi chi

bel nipotin!

L’hat vist quel alber

lì vizin al ronc?

L’hat vardà quel tronc?

El perde la scorza

la se destaca da

l’oss malà.

L’hat vardà ben?

L’è tut carolà – porèt!

Curiosa mò ‘n tra i rami…

te fai ben prest,

no ghe n’è quasi pù…

i è tuti nadi anca l’ista!

 

Vèi chi… vèi chi

bel nipotin!

Vardante en mezz a l’erba

entorno ale radis:

quanti reputi!

Do tre generazion.

Foie tendre!

Dai… dai

Ghe tiran via le erbaze

ghe lassan vegnir

chi ‘l sol!

Buone letture e buona poesia a tutti!

 

luigi.osspapot@gmail.com

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IL BUIO OLTRE LA SIEPE, romanzo mio amatissimo

pubblicato da: admin - 16 Luglio, 2010 @ 8:48 am

Perchè “Il buio oltre la siepe” , di Harper Lee; è uno dei miei libri preferiti, conservato gelosamente  e sempre presente nella mia mente di lettrice accanita? Perchè  vi sono  raccontate la doti  umane che più apprezzo: l’onestà, il desiderio di verità e di giustizia, l’attenzione agli altri, insomma la serena bontà. Quando lo lessi nel 1964 scrissi sulla prima pagina ” Questo è un romanzo pieno di un’umanità e di una moralità grandissime. Un librò che avrà sempre qualcosa da insegnarmi.”

Siamo nel profondo sud del Stati Uniti, nell’Alabama degli anni Trenta, razzista, chiuso  e diffidente.  L’avvocato Atticus Finch, vedovo, padre di due bambini accetta di difendere un uomo di colore accusato ingiustamente  di aver stupratro una ragazza bianca. Proverà la sua innocenza, ciononostante l’accusato verrà giustiziato. Un finale amaro, terribile, disumano che ci fa ricordare quanta cattiveria e timore dell’altro “diverso” albergasse nella mente degli  uomini. Ma è ancora così?

Il tema del diverso è  sottolineato dalla bravissima Harper Lee, premio Pulitzer del 1960, anche nel personaggio di Boo, il giovanotto minorato mentale  segregato dai genitori nel seminterrato. 

 Timore eccitante, ma prova di coraggio nel voler scoprire qualcosa di lui  sono incentivi per la giovane figlia di Atticus,  Scout, ragazzina coraggiosa, “maschiaccio”, dal linguaggio poco ortodosso, per avvicinarsi alla casa misteriosa, di spiare, di voler sapere.

E’ un romanzo da rileggere spesso.Il titolo originale è “To kill a Mochingbird” (Uccidere un passerotto)

Il film interpretato da Gregory Peck è stato eccezionale. Atticus Finch- Gregory Pech è stato ed è  ancora il mio eroe. L’uomo dei miei sogni. Bello, intelligente,  coraggioso, e soprattutto buono e giusto.

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LA TIGRE BIANCA, di Aravind Adiga

pubblicato da: admin - 15 Luglio, 2010 @ 7:27 pm

                            Visto l’accenno di Camilla proprio a questo libro, “La tigre bianca“, decido di presentarlo come post odierno. E ancora  grazie a Riccardo che mi ha rifornito di varie suggestioni di lettura in questo periodo molto faticoso per me. Io lo ringrazio e lo apprezzo. E’ un validissimo aiuto proprio perchè, come ho già detto, questo caldo mi stritola ed inoltre in questi giorni devo prepararmi a vari spostamenti, primo il viaggio a Graz per il concerto di Stefania, secondo l'”esodo” verso la mia casa in Liguria con gatta e annessi. Spero soltanto laggiù di avere un PC portatile con chiavetta per continuare questo mio lavoro quotidiano.

Prima di lasciare la “parola” a Riccardo  voglio soffermami sull’animale tigre che a me piace moltissimo. Se dovessi scegliere che animale essere primo sceglierei il delfino, poi un gabbiano, infine una tigre. Imponente, bella, che si fa rispettare ed ama stare spesso per i fatti suoi.  Ricordo che mia nonna bianca, per il mio caratterino audace e senza mezze misure (altro che l’attuale languore da damina ottocentesca!) mi chiamava (La Tigre del Bengala, “meza negra e meza zala”.  (mezza nera e mezza gialla) .Naturalmente io mi offendevo a morte, ma ancor di più mi arrabbiavo quando mi doceva   “Sei  la regina Taitù, ma Menelik non ti vuol più!”  Allora furibonda  “rispondevo” male e urlavo “Ma perchè non mi vuol più?”

Ho scherzato parlando un po’ di me perchè so che molte mie lettrici (che ancora non si decidono a scrivere commenti )  amano questi accenni alla vita privata e perchè lo scopo precipuo del mio blog è scrivere di ciò che una lettura ci regala in ricordi, riflessioni, concordanze. Non tanto una recensione dunque  (ce ne sono a bizzeffe in Internet) ma le varie “intermittenze del cuore” che un libro o soltanto una pagina, una “frase, un rigo appena” accendono nel nostro sentire, ci arricchiscono, modificano  anche solo impercettibilmente il  nostro  modo di vedere il mondo, così variegato, così’ grande, così ancora sconosciuto. Ben venga perciò un altro libro “lontano” che ci può far entrare nel pianeta India.

Grazie Riccardo.

ARAVIND ADIGA  / LA TIGRE BIANCA  /Einaudi, 2008 

No, non è un emulo di Salgari, della sua Tigre di Mompracem che tanto lessi da ragazzino! No, si tratta di tutt’altro.

Ho già segnalato Maximum City (Bombay città degli eccessi) di Suketu Nehta, e mi è venuto naturale segnalare questo secondo “libro indiano”, questa volta un romanzo che potremo a buona ragione definire “storico attuale”.

Anche questa volta siamo di fronte ad un’opera prima di un autore nato a Madras nel 1974. Dopo aver soggiornato in Australia, Inghilterra e Stati uniti, attualmente vive a Mumbai (e ci risiamo, direte voi!). Con questo suo libro egli ci conduce dietro le quinte dell’India moderna, la “shining India” l’India brillante, quella della new economy e delle nuovissime tecnologie, della crescita economica vertiginosa, del consumismo sfrenato di pochi, descrivendo con durezza e sarcasmo i bui retroscena, materiali e morali, di tanto scintillio.

Nei vostri scaffali va allocato accanto a Maximun City.

Riccardo Lucatti

 

 

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MAXIMUM CITY, di Suketu Mehta

pubblicato da: admin - 14 Luglio, 2010 @ 6:18 pm

 Mi fa piacere dopo aver parlato della triste e affascinante  Istanbul di Pamuk, del Bosforo al chiaro di luna, del chiaro scuro dell’animo dei suoi abitanti, primi fra tutti  i suoi quattro grandi scrittori tristi che l’hanno cantata a amata, sentire parlare da Riccardo  di – Bombay città degli eccessi - 

Non sono mai andata in India che mi attrae e mi spaventa per il “ troppo” che intuisco: troppi colori, suoni, profumi, troppa vita per una come me che ama le mezze stagioni, ma certamente una sfida a non tralasciare una civiltà diversa impregnata di filosofia altra da quella occidentale, di un misticismo libero e tangibile. Questo libro che Riccardo ci presenta è senz’altro esaustivo; conosceremo Mumbai nei suoi mille  aspetti , dagli slum dell’underworld, quindi l’estrema povertà, alla carica gioiosa che vediamo attraverso i  film di Bollywood dove i bellissimi protagonisti  cantano e danzano tra mille colori e tintinnamenti di ciondoli.

Ma è la gente, la folla che vive in questo paese che ne segna gran parte l’identità . Scrive Suketu che c’è una  “ battaglia di sè contro la folla, ma per uscirne arricchito e non schiacciato…Siamo individui multipli, in una solitudine plurale. La folla e il sè”

Ci illustra Riccardo:

L’autore è scrittore e giornalista. Questo è il suo primo libro, il ritratto di una della più grandi città del pianeta, attraverso la voce dei suoi abitanti: dalla malavita al cinema, dal mondo delle ballerine dei night club agli scontri fra le comunità indù e musulmana. Fra le altre, storie vere di gangster raccontate dagli stessi “protagonisti”. I capitoli? Eccoli:

  1. Parte prima: Potere

    1. Geografia personale

    2. Powertoni

    3. Mumbai

    4. Colletti neri

  2. Parte seconda: Piacere

    1. Una città di mangiatori di vadapav

    2. Una città in calore

    3. Distillerie di piacere

  3. Parte terza. Passaggi

    1. Miniere di ricordi

    2. Sone ki Chidiya

    3. Addio mondo

 

Mumbai l’incredibile, direi io! Incute paura unita al desiderio di un viaggio. Sicuramente una “lettura nuova”, sorprendente, ricca di informazioni su una civiltà per tanti aspetti a noi sconosciuta, vista attraverso la vita vissuta e non sui libri di testo.

Dopo averlo letto, terrete questo libro jn una posizione dominante nei vostri scaffali. Lo merita.

Riccardo Lucatti

 

 

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ISTANBUL, ovvero Orhan Pamuk

pubblicato da: admin - 13 Luglio, 2010 @ 6:56 pm

Finalmente conosco Orhan Pamuk, lo scrittore turco vincitore del Nobel per la letteratura nel 2006. E in questa sua autobiografia avvincente ripercorro la crescita intellettuale- artistica  di un uomo sensibile che è tutt’uno con la sua città.  Dentro di sè, ci ripete tra le righe e con le tante fotografie in bianco e nero, è nascosta l’anima della città. Una città che lui ama e di cui vede la decadenza inevitabile, quasi che i colori sfarzosi del potente impero ottomano si siano cancellati per sempre per far emergere una Istanbul prevalentemente invernale.”…i parchi rimasti vuoti e trascurati nell’inverno e la fretta delle persone che d’inverno tornano a casa la sera nella neve e nel fango, tutto questo richiama quel sentimento di chiaroscuro nascosto dentro di me, come una felicità velata dalla tristezza…”  Un’anima bianca e nera, quella di Pamuk come le tante fotografie che costellano la sua autobiografia . Pagine pervase dalla hùzun, tristezza che ” è come un vapore sui vetri delle finestre, creato da una teiera che bolle continuamente in una giornata fredda d’inverno, perchè non ha un istante di trasparenza e appanna la realtà“.

La sua storia personale va in parallelo con la descrizione di Istanbul nei suoi più importanti momenti storici. Le sue epifanie, i suoi più grandi desideri sono strettamente legati a questa sua città vissuta, attraversata, analizzata con la lente come fa con i disegni di Melling. Pamuk vorrebbe diventare pittore, ma la sua vocazione lentamente lo porta a scrivere. E in questo libro sembra un pittore che dipinga con parole invece che con i pennelli.

Leggo con grande piacere questo romanzo, mi rinfrescano le immagini di Istanbul sotto la neve, del Bosforo sotto la luna, la bellezza struggente della tristezza,la huzun, che assomiglia un  po’alla saudade portoghese. In fondo la solitudine malinconica, il desiderio di raggiungere l’irraggiungibile è tristezza inconsolabile.

Pamuk racconta della sua infanzia, dei suoi genitori che litigano e che si separeranno, ci racconta delle scure stanze-museo del Palazzo Pamuk dove , su diversi piani, vive tutta la  ricca  famiglia paterna.

Ciò che mi affascina oltremodo è sempre la descrizione dell’anima di Istanbul, il suo destino che diventa il carattere del suo narratore. Città che vive la sua bellezza e  la sua vivace malinconia grazie all’arteria pulsante del Bosforo, lo stretto di mare che collega il Mar Nero al mar di Marmara e che separa l’Europa dall’Asia. Punto sospeso anche per la famiglia Pamuk che per alleggerirsi dalla tensioni familiari fa gite in barca sul Bosforo per  ammirare le antiche case di legno, il Corno d’Oro, i suoi tramonti fiabeschi.  Ma è il Bosforo al chiaro di luna che  il nostro scrittore ama soprattutto . Rilegge spesso Abdulhak Sinasi Hisar (1887-1963) che introduce la sensibilità di Proust e le le sue lunghe frasi. E proprio nel suo  “Chiari di luna del Bosforo” Pamuk ritrova il mondo particolare ormai scomparso verso il quale prova una cocente nostalgia  “…in barca nelle sere al chiaro di luna, sullo stretto, ad ascoltare la musica…contemplare la luce della luna e i suoi giochi d’argento…e quando la musica finiva e iniziava il silenzio dell’oscurità le acque, senza che ci fosse il vento, qualche volta sembravano ondeggiare con un brivido leggero.”

Purtroppo la Istanbul attuale  come tutte le grandi città è anche piena  di contraddizioni, violenza , vizi umani.   Ma il Bosforo del passato, quello disegnato, dipinto o raccontato c’è ancora e rimane sempre  una consolazione, una meta. “La vita non può essere così brutta – penso a volte -. Comunque, uno alla fine può sempre farsi una passeggiata sul Bosforo.”

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LE TIGRI DI MOMPRACEM, e il ricordo di mio padre

pubblicato da: admin - 12 Luglio, 2010 @ 7:13 pm

240px-Salgari_mompracem[1]Notti seminsonni dal caldo, pensieri pesanti come l’afa che stritola. Penso allora a mio padre che riusciva a stare ore e ore nel letto a “immaginare” avventure. Gli chiedevo nei suoi ultimi  anni  “Ma come fai a stare così  tranquillo a letto senza dormire? Che cosa pensi?”. E lui, con un po’ di pudore, rispondeva ” Ah, io sono sempre in Malesia con Sandokan e Tremal- Naik.”. Inventava infatti, mio padre, avventure della Tigre di Mompracem o riviveva  come co-protagonista quelle già lette, un’attività immaginifica così forte da renderlo una persona senz’altro particolare ed affascinante.

Ecco che allora un autore mi riporta mio padre lettore. Non solo Emilio Salgari, ma  anche Dostojevskij,(“Il Giocatore” era il suo preferito…perchè anch’egli amava il gioco!), e poi  Emile Zola (citava sempre “La bestia umana” perchè l’aveva colpito tantissimo), e Curzio Malaparte dove nel suo “Maledetti toscani” si ritrovava con orgoglio, poi Oriana Fallaci ecc. Amava leggere testi geografici, a tavola si parlava di luoghi lontani, dei fiumi più lunghi, delle capitali…Non fece molti viaggi  all’estero mio padre, qualche puntata in Austria e Germania per lavoro, ma  riuscì ad appagare il suo desiderio di conoscere altri mondi  attraverso la lettura attenta, lo studio, l’interesse per chi viaggiava  e naturalmente la fantasia.

 Amava particolarmente  Emilio Salgari  proprio perchè anch’egli  pur non viaggiando,  riuscì a raccontarci   avventure magnifiche ambientate in luoghi esotici e lontani  documentandosi  soltanto su atlanti e libri.

Emilio Salgari non riuscì a conseguire il diploma di Capitano di marina che tanto avrebbe desiderato e navigò soltanto  per tre mesi lungo le coste dell’Adriatico. Non riuscì mai ad andare oltre il Mediterraneo, è l’Oceano indiano  la cornice delle sue mille avventure. I suoi romanzi ebbero un grande successo di pubblico, doveva scrivere a ritmo continuo senza ricevere in cambio  un gran tornaconto economico. Come in una catena di montaggio ogni giorno, fumando cento sigarette (anche mio padre era un  gran fumatore), scriveve pagine e pagine sul principe- pirata che in  Malesia  combatte contro la potenza coloniale britannica e olandese aiutato dal fido Yanez de Gomena.  Il nemico per antonomasia riveste i panni di James Brooke, rappresentante della Compagnia delle Indie e simbolo dell’oppressione straniera.

Sandokan è coraggioso, forte, è una vera tigre, e riesce a sollecitare la fantasia dei lettori di ogni età e tempo. C’è anche la parte sentimentale: l’amore per la bellissima Marianna, la dolce Perla di Labuan.

Naturalmente anch’io ho letto questi libri e po  li ho regalati a Stefania. Ma se nomino Sandokan subito mi appare mio padre che paragono a Salgari per la sua immaginazione vivida e intensa,  per il suo desiderio di avventure lontane, di andare in un altrove forse più consono alle sue caratteristiche. Lo accosto anche a  Sandokan stesso, leale, combattivo, dominatore e soprattutto libero.

Spontanea mi sorge l’osservazione: dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei…

Interessante  sarebbe anche parlare, oltre che delle nostre letture, anche quelle dei nostri genitori …leggo che Claudia ha prestato il “libro viaggiante”trovato su una panchina alla mamma che presto andrà in India! (Non ho ancora letto “La traccia del serpente”…perchè, cara Claudia, non ci scrivi tu qualcosa quando l’avrai finito?)

Bellissima  l’iniziativa di far circolare più libri possibili…la lettura collante di esperienze, emozioni, scoperte…

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