MARE DI PAPAVERI, di Amitav Ghosh

pubblicato da: admin - 10 Ottobre, 2010 @ 10:30 pm

                                                      Anche oggi lascio la parola scritta a Riccardo che, insieme a Stefania, mi ha permesso alcuni giorni di stand bycop[3].  Trovo che conoscere le letture preferite di altre persone sia sempre molto coinvolgente e interessante.

Approfitto poi per dare il benvenuto a Brunella che ha lasciato un  commento  al Diario di Hélène Berr e un link per leggere un suo racconto.

 

Neri Pozza Editore, 2008

Pagine 538, €18,50

 

Innanzi tutto, l’Autore: nato a Calcutta nel 1956, ha studiato ad Oxford, vive a New York ed è considerato uno dei maggiori scrittori indiani. Ed allora, perché no? Perché non iniziare a conoscere sempre meglio anche quella cultura, usualmente un po’ troppo lontana dalle nostre “abitudini culturali”?

Si tratta qui di un romanzo che per l’ambito in cui si svolge la narrazione potremo definire “storico” la cui lettura vi caldeggio del tutto tranquillamente. D’altra parte infatti a chi vuole conoscere la letteratura e la storia italiana, non potremo fare a meno di suggerire anche “I promessi sposi”, non credete?

E poi, ormai lo sapete, io sono “malato” di mare, vele, vento e il romanzo che vi presento inizia alla fine dell’inverno con una “accostata” di un enorme veliero a due alberi alla foce di un fiume indiano le cui sponde sono incorniciate da due lunghe lingue di ghiaccio: i petali dei papaveri, bianchi data la stagione: “era come se la neve delle cime himalayane fosse scesa sulle pianure in attesa della festa di Holi con la sua primaverile profusione di colori”.

Siamo intorno al 1838 e la nave è una goletta. Sì, proprio quel tipo di veliero nato alle Bermude, molto “boliniero”, cioè velocissimo nel risalire il vento con un ottimo angolo (sino a 25 nodi, oltre 40 km/h, moltissimo anche per una moderna nave a motore!), adottato dai coloni americani nella lotta di indipendenza contro l’Inghilterra e qui, nell’Oceano Indiano e dintorni, usato per il contrabbando, il trasporto di schiavi e di prigionieri ed anche nella “guerra dell’oppio”.

Per i non addetti ai lavori: riconoscete le golette dallo scafo lungo e sottile, dal bordo assai basso, dai due alberi molto inclinati, quello più a prua, il “trinchetto” più basso del secondo, l’albero “di maestra”. Trinchetto e maestra portano due rande enormi, vele molto potenti, pericolose da manovrare data l’enorme concentrazione della forza aerodinamica che raccolgono. Inoltre le golette hanno un terzo albero, il bompresso, a prua, proiettato orizzontalmente in avanti, molto lungo, sul quale sono armati molti fiocchi.

Dicevamo “guerra dell’oppio”, già, perché anche di questo si tratta, della guerra che noi europei abbiamo portato, per ben due volte, alla Cina, “colpevole” di non voler più importare l’oppio che gli Inglesi facevano coltivare ai coolies (rectius, schiavi) nella colonia indiana, volendo in tal modo l’Albione pareggiare con queste sue esportazioni la propria bilancia dei pagamenti, altrimenti “in rosso”.

Sulla nave i passeggeri ed i membri dell’equipaggio, di ogni più svariata estrazione, sono tutti protagonisti ed ognuno quindi trova spazio nella “propria storia”. Ne viene fuori la descrizione di un “popolo multi popolo”, embrione della nascita dell’India moderna dalla mescolanza di etnie e culture diverse.

Le pagine da leggere sono tante, è un libro che “dura molto”, che al di là delle storie ci arricchisce di Storia e che non si “interrompe di leggere”.

A questo punto vi lascio alla lettura con il saluto di noi velisti …

 

… Buon Vento! (E buona lettura)

 

Riccardo Lucatti

 

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MAESTRO DI TE STESSO, o l'arte di "ri-programmarsi"

pubblicato da: admin - 9 Ottobre, 2010 @ 6:09 pm

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In guisa di blogger ad interim in data odierna e per privilegio di sangue, ricevo mandato dalla “original” blogger per un post e per la sua auto-presentazione. Dopo la “ciclosofia” di Riccardo Lucatti, ecco un altro manuale, questa volta incentrato sulla musica, ma facilmente fruibile da tutti, “musicofagi” e non.

 

Sono molto contenta di poter presentare oggi un libro un po’ particolare, non una storia o un romanzo epistolare, ma un manuale di introspezione sapiente, un aiuto da parte di due artisti di profonda ed incrollabile fede nelle risorse umane verso non solo i colleghi, ma verso tutti coloro che vogliono rimettersi in cammino nella ricerca personale.

 Federica Righini e Riccardo Zadra sono stati per quattro anni i miei maestri di pianoforte. Assieme, all’Accademia Pianistica di Padova, ci siamo esplorati e confrontati su una moltitudine di temi, in gran parte musicali e in ugual parte personali. Il loro aiuto per la mia crescita umana e musicale è stato incommensurabile e ancora ne sento un’importante influenza. Recentemente è uscito il loro libro, frutto di anni ed anni di ricerca ed esperienza, ed è già diventato un caso editoriale.

 Domande come: cosa sto facendo? Dove tendo? Quali sono i miei obiettivi? E le strategie per attuarli? Sono in armonia con me stesso in questo processo? Dove metto le mie emozioni e quali attivo? Quali sono le mie convinzioni profonde? Possono esse frenare il mio cammino di realizzazione? Sono allineato/a con le mie aspirazioni? – sono domande che ogni musicista dovrebbe porsi, non una, ma molte volte e in periodi diversi della sua crescita artistica. E tuttavia sono domande – suggeriscono gli autori – che tutti potrebbero porsi, almeno una volta nella vita, proprio per migliorare la qualità dell’esistenza, attivandone pienamente le risorse.

 Presentare questo libro nel breve spazio del post è impresa improba, tanta è la sostanza presente in ogni capitolo. Sicuramente vorrei soffermarmi sulla scelta degli autori di applicare alcune tecniche della PNL – Programmazione Neuro Linguistica – alla musica e ai musicisti. Su cos’è la PNL, nata (ovviamente) in America negli anni ’70, cito dal Capitolo I: un insieme di strumenti raffinati e potenti per favorire e accelerare i cambiamenti delle persone in direzione del loro successo e della loro realizzazione. La PNL studia le strategie e i processi interiori di coloro che raggiungono risultati di eccellenza in ogni ambito, per codificarli in un modello fruibile da chiunque.

 Una tecnica potente dunque, e facilmente avvicinabile da noi Occidentali perché creata con i nostri mezzi e per i nostri processi mentali. Ma Federica Righini e Riccardo Zadra non si limitano a questo. Nel capitolo VII, “La musica nel corpo,” ci sono molti suggerimenti su tecniche diverse per riprendere contatto e riallineare il proprio corpo sugli obiettivi prefissati. Si parla quindi di Yoga, arti marziali, Tai Chi come discipline orientali, dei metodi Feldenkrais, Alexander, Rolfing, Trager, Ribirthing, Mezières, Pilates, Tomatis, Bioenergetica, Integrazione posturale, Eutonia, Biodanza, Gyrokinesis come metodi sincretici, tutti esperiti dagli autori.

 Tutto ci può aiutare per ritrovare l’allineamento mente-corpo e soprattutto l’ “entusiasmo” della piena realizzazione che, come ci ricordano gli autori, deriva dal greco “essere nel Dio” (en theòs) . Come viaggio nelle nostre convinzioni profonde, nei dubbi, nelle negazioni auto-imposte e nelle paure, questo manuale descrive, chiede, propone, e mai impone. Il tono è tranquillo e non ci forza mai. Anche in argomenti delicati e personali, gli autori illustrano, citano esempi, suggeriscono esercizi. Pur essendo un manuale, si fa leggere con interesse e non solo da musicisti come me, ma veramente da tutti (di musica si parla in realtà come spunto per una più vasta indagine, proprio perché nella musica le problematiche di gestione della sfera emotiva e dell’allineamento degli obiettivi, sono molto evidenti).

 Per concludere, da questa lettura impariamo a considerarci “maestri di noi stessi,” ri-osservandoci, ri-comprendendoci, ri-allineandoci, e perché no, ri-amandoci e “ri-spettandoci.” Impariamo ad “allenarci” alla felicità e ad essere nel “qui ed ora” della nostra vita, espandendoci all’universo. C’è un passaggio nel capitolo VIII “La via del successo e il richiamo del daimon” che vorrei citare interamente, anche con l’esercizio annesso:

Si dice che quando ciò che vuoi dalla vita si incontra con ciò che la vita vuole da te, l’intero universo cospira per la tua realizzazione: è ciò che gli antichi cinesi chiamavano ‘essere nel Tao’ e gli antichi greci kairòs.

Ecco l’esercizio (applicabile a tutti):

 Chiudi gli occhi e ricorda quel momento della tua vita nel quale hai scelto la musica come la tua strada, in cui hai provato quel qualcosa che ti ha fatto decidere, senza ombra di dubbio, che volevi suonare e fare il musicista. Concediti un po’ di tempo per rientrare pienamente in quella fase della tua vita. Cosa facevi? In quale ambiente ti trovavi? Quali persone ti erano intorno e cosa ti dicevano? Cosa suonavi e come? E soprattutto: quali sensazioni ed emozioni provavi? Quali valori ti guidavano? Cosa ti ha fatto dire: sì, questo è quello che desidero? Ora ritorna al presente, alle sensazioni che provi attualmente quando suoni. Il contatto con questa energia è ancora vivo, luminoso, oppure è sfuocato, nascosto? Quali pensieri o emozioni si frappongono fra te e la tua vocazione?

 Un bel regalo, questo libro.

 Stefania Neonato

 

 

 

 

 

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PICCOLO TRATTATO DI CICLOSOFIA, di Didier Tronchet

pubblicato da: admin - 8 Ottobre, 2010 @ 8:48 pm

14 set 2010 (1) Finalmente uno sguardo maschile sui libri!  E’ sempre Riccardo che ci offre spunti interessanti e divertenti di lettura. Oggi poi lo possiamo conoscere in tutta la sua sportività. Qui è a Vason, raggiunta dopo 1450 mt di dislivello da Aldeno Cimone Garniga Viotte. Ci spiega “La mia faccia non è grinta…E’ stanchezza

Il mondo visto dal sellino

Il saggiatore Tascabili

153 pagine, €9,00

 

“Ciclosofia” ovvero l’insieme delle idee, delle intuizioni e delle sensazioni nate sulla bicicletta. Infatti, miei cari, io non vado solo in barca a vela e con gli sci … ma anche con la bicicletta! Ed ecco qui un meraviglioso manuale ciclosofico. Alcune perle:

 

La differenza tra la visione del mondo del ciclista e quella dell’automobilista è assai profonda: a livello di culo. Quello del ciclista, leggermente all’indietro favorisce il decollo della colonna vertebrale. La postura da aristocratico britannico è simile a quella delle statue antiche e porta con sé una visione dinamica che testimonia una grande fiducia in ciò che la vita ci riserva. Il posteriore dell’automobilista è rattrappito nella molle concavità del sedile ed implica nel suo proprietario una posizione semifetale che ne tradisce il ripiegamento su di sé, all’interno di un’illusoria sicurezza placentare che si infrangerà al primo urto.

Nessuna delle piccole sofferenze quotidiane resiste ad un buon colpo di pedale.

Nel caso di piccole depressioni, spesso è il movimento che salva, non la fuga, bensì il cambiamento del punto di vista. 

Il cattivo tempo? Dopo tre colpi di pedale il ciclista possiede il proprio impianto di riscaldamento integrato.

La pioggia? Benché sferzato dall’acqua, tutt’a un tratto il ciclista abbandona l’idea che la pioggia sia nemica e la accoglie come una carezza del cielo, pensando al piacere primordiale della cioccolata calda al rientro.

La bicicletta e l’automobile ovvero la farfalla ed il bulldozer: la farfalla durante il suo tragitto si arricchisce, il bulldozer distrugge ciò che incontra.

La sensazione di fragilità che permea il ciclista acuisce la sua attenzione al mondo: egli condivide tale attenzione con la gazzella.

Ciò che colpisce il neociclista, strappato dal sedile della sua auto, è soprattutto la vastità della visuale.

 La bicicletta fende sottilmente l’atmosfera che si richiude senza lasciare alcuna scia dietro di sé, come farebbe una fragile barchetta su un mare calmo.

 

Alla fine, ciò che viene rimproverato a noi ciclisti al termine di un processo perverso di rovesciamento dei valori, è la nostra silenziosità!

Da quando c’è il motore, c’è competizione. Con la bicicletta no.

La geografia di una città per l’automobilista è a due dimensioni: destra, sinistra. Per il ciclista c’è una terza dimensione, la salita-discesa.

Il tracciato dell’automobilista per andare dal punto A al punto B in città è assai complesso, pieno di ghirigori, inversioni di marcia etc.. Quello del ciclista è lineare. 

Due biciclette all’entrata di un campo, una da uomo ed una da donna, sono uno dei più bei simboli d’amore che si conoscano. D’altra parte “vèlo” è l’anagramma di love. Ma anche di volè, quando te la rubano!

Sulle portiere delle auto dovrebbe essere scritto: “Nuoce gravemente alla salute”.

Il ciclismo è nuotare nello spazio.

 

Identikit dell’Homo Machinans:

  • Individualista: più io che noi

  • Competitivo: con la sindrome del vrum vrum

  • Maschilista: macchina grande, attributi forti

  • Aggressivo: sono circondato da paranoici che ce l’hanno con me.

  • Manca del senso della realtà: esiste anche un mondo attorno alla mia macchina?

  • Affetto da polluzione diurna: l’ho ancora fatta nel mio strato di ozono

  • Con il culto dell’appartenenza: mostro, quindi sono

  • Con il culto del superfluo: mi è indispensabile perché non ne ho bisogno.

 

E tanti, tanti altri insegnamenti e riflessioni!

Dai, leggetelo questo libretto, è fa-vo-lo-so! In realtà esso è assai più profondo di quanto le mie citazioni possano lasciar trasparire. Sono sicuro che, al di là della bicicletta, abbiamo tutti da imparare dalla ciclosofia. Infatti, “ridendo castigat mores” che non vuol dire che si diverte mentre castiga i negri …

Buona bicicletta a tutti!

Riccardo Lucatti

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La;nina mala; del Nobel Mario Vargas Llosa

pubblicato da: admin - 7 Ottobre, 2010 @ 8:37 pm

2515158[1]llosa_280xFree[1]Il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato al peruviano Mario Vargas Llosa, autore di moltissimi romanzi e saggi.  Scrittore prolifico, giornalista, politico, egli  si definisce “schiavo della letteratura”.

 Nato nel 1936, vive per molti anni in America Latina, si interessa presto di politica, di società, di individui. Dalle iniziali posizioni di sinistra negli anni ’90 si avvicina più tardi a posizioni conservatrici. Rimane però deluso dalla svolta autoritaria del regime per cui decide di trasferirsi a Madrid.

Vargas Llosa ci presenta l’uomo a tutto tondo, sottolinenandone soprattutto gli aspetti di ribellione e delusione nei confronti del potere.  I suoi sono personaggi particolari che si ricordano a lungo come la “nina mala,” la protagonista del romanzo di cui parlo oggi:  “Avventure della ragazza cattiva“.

Ma è veramente una cattiva ragazza questa donna che noi incontriamo giovanissima a Lima mentre cerca di intrufolarsi negli ambienti che contano? La si può definire un’arrampicatrice sociale? Doveva rimanere nella sua periferia povera e brutta?

In questa società ci sono certe regole, certi pregiudizi, e tutto quello che non vi si adatta sembra anormale, un delitto o una malattia,“ci dice l’autore in un suo aforisma.

Il giovane Ricardo si innamora appena la incontra, ma lei gli sfuggirà per gran parte della vita. Le strade del mondo sono infinite: i due si reincontrano  negli ambienti esistenzialisti di Parigi, nella swinging London dei Beatles e di Mary Quant, nei torbidi ambienti notturni di una inquietante Tokjo. Attraversano i luoghi e la storia degli anni Sessanta. Per caso? Per destino? Lui la cerca, lei fugge e si nasconde, ma sempre gli riappare come l’icona dell’ “eterno femminino” sognato da molti uomini. Per lui questa donna è come un “fuoco fatuo che lo incendia di felicità” per brevi periodi, lasciandolo poi stremato in attesa. Ricardo attraversa l’inferno nella ricerca di questa “ragazzaccia,” ma questo è tutto ciò che vuole: passione, follia, sesso, gioia, delirio, disperazione, insomma, un amore estremo.

E cosa c’è di più intenso che essere innamorati?

Dal canto suo la “nina mala,” della quale forse non viene detto il nome, è un caleidoscopio di figure femminili: dalla quindicenne desiderosa di elevarsi, alla guerrigliera filo-cubana, alla bigama lady inglese, alla compagna di un  ambiguo affarista giapponese. E i suoi mille volti, il suo cambiare identità,  sono forse lo specchio del malessere dei nostri tempi incerti, così mutabili, che alimentano in fondo al cuore una perenne sensazione di esilio?

La sua vita sembra border line, sempre su un pericoloso filo del rasoio, ma ciò  sembra appagare  appieno la sua sete di vita e di esperienze.

Ricardo riesce spesso a salvarla da pericolose situazioni durante i  loro fugaci e misteriosi incontri. Intanto gli anni passano…

La donna che appare più volte, quasi magicamente, è un elemento ricorrente della letteratura latino-americana. Nei suoi “Racconti Raminghi” Marquez descrive  la “donna-indovina”  che al protagonista appare sempre in case e città diverse, come fosse una costante della sua vita.

Di Mario Vargas Llosa ci sarebbe da leggere tanto. I suoi libri sono tutti best-sellers da  “La casa verde” a “La conversazione nella cattedrale”, da “I quaderni di Don Rigoberto”, ai saggi su Flaubert e Gabriel Garcia Marquez.

Ma per chi vuole un particolare romanzo d’amore consiglio questo “Avventure della cattiva ragazza”.

“Non importa quanto sia effimero, un romanzo è qualcosa, mentre la disperazione non è nulla” ci dice Vargas Llosa, premio Nobel  2010 per la letteratura.

 

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SOGNANDO JANE AUSTEN A BAGHDAD

pubblicato da: admin - 6 Ottobre, 2010 @ 6:02 pm

scansione0001Un romanzo epistolare arrivato  da poco in libreria che sembra avvalorare le nostre riflessioni sulla conversazione scritta.

 Per puro caso  Bee Rowlatt, giornalisa della BBC vuole intervistare via mail una docente universitaria,  May Witwit che insegna letteratura inglese a Baghdad. La corrispondenza inizia il 17 gennaio 2005 con Bee che scrive: “…E’ da una settimana che cerco di contattare iracheni che conoscono l’inglese per intervistarli in vista delle elezioni che si terranno fra pochi giorni. Non sai quanto sono felice di averti trovato.”

Subito le due donne instaurano un rapporto spontaneo, affettuoso, aperto. Si raccontano la loro vita e molto presto anche  le  loro vicende più intime saranno condivise.

Bee ha due figlie ed è in attesa di una terza, vive a Londra che adora. May ha 46 anni, si è risposata da poco dopo essere rimasta vedova anni prima. Racconterà del suo matrimonio con questo  uomo  molto più giovane, sunnita, e di tutti i problemi per lei, sciita, legati sia alle famiglie di entrambi  che hanno condannato questa unione sia legati alla politica.

 Bee in una mail del marzo 2006 le chiede bruscamente “Secondo te dovrebbero andarsene tutti i militari? Le cose sono migliorate dopo l’invasione?” al che May risponde che stavano meglio col vecchio regime pur pieno di colpe. Ora hanno difficoltà a trovare tutto, ci sono continui black out, percorsi vietati, pericoli per i sunniti, docenti assassinati, insomma risponde “Oggi siamo solo un pezzo di terra sommerso dal sangue e dal caos…Ti prego” aggiunge “scrivimi, mi mancano la civiltà e la pace.”

 E prosegue  che per colmo d’ironia tiene anche un  corso di diritti umani e di educazione alla democrazia. 

May ci racconta delle sue studentesse che arrivano all’università velate, corrono in bagno per cambiarsi e truccarsi e poi si rivestono da capo a piedi per tornare a casa. Pur seguendo i corsi di letteratura inglese fanno fatica a entrare nelle psiche dei personaggi descritti. Per esempio, dopo la lettura de “La lettera scarlatta” di Hawthorne chiedono perchè il marito non abbia ucciso  moglie e amante invece di punire la peccatrice con l’obbligo di portare una  lettera A cucita sul petto !!!

E “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen? Non solo un’evasione  totale dalla realtà irachena, ma sempre uno spazio che può diventare proprio, una serenità razionale da conquistare  e sognare anche solo per un po’.

Il rapporto di amicizia cresce attraverso la conoscenza reciproca di grandi e piccoli avvenimenti tanto da diventare un appuntamento quasi quotidiano tanto è l’urgenza di comunicare.

Come il nostro blog?

May e Bee, pur vivendo in realtà così diverse,riescono  trovare il punto d’unione, quello della comunicazione più autentica.

Dal 2008  May Witwit vive in Inghilterra con il marito. Molti consigli e aiuto per lasciare la sua terra di “sangue e di caos” li ha avuti proprio da Bee Rowlatt.

Si incontreranno per il tè? Parleranno ancora come nelle e-mail di libri?

Come noi?

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L'ARTE DELLA CONVERSAZIONE, di Peter Burke

pubblicato da: admin - 5 Ottobre, 2010 @ 5:53 pm

“E’ come invitare un tedesco a bere una birra” direbbe mia madre a proposito dell’argomento conversazione  che mi intriga e mi sollecita a parlarne,  sia grazie alla divertente disavventura della  chat letteraria raccontata da Camilla sia perchè ripenso  ancora con piacere al meeting allargato  di domenica mattina.

Ricordo anni fa di aver notato  questo saggio di Peter Burke, devo averlo sfogliato, ma non lo comprai. Però so che parla proprio delle regole sociali antiche ed attuali, delle buone maniere che si dovrebbero adottare quando ci ritrova con gli altri, proprio per far diventare la conversazione un’arte, come direbbe  Oscar Wilde.

  Si parte  dalle regole del parlar cortese del Cinquecento, passando per le esagerazioni delle  Précieuses ridicules sino ai consigli  recenti per padroneggiare la base del nostro stare insieme. E per aiutare i più timidi.

 Sono andata a cercare su Internet qualcosa di più e ho trovato un esaustivo  elenco di passaggi per padroneggiare quest’arte! C’è anche un elenco di  Cose che serviranno per non sentirsi inadeguati. .. tra queste lucidità, delle espressioni facciali appropriate…e qualcuno con cui parlare!

Il primo passaggio è “Dimenticare se stessi”. Centrare gli interessi dell’altra persona e fare domande.

Terribile sarebbero  i  monologhi (che potrebbero addormentare o far vagare la mente dell’interlocutore) come lo sarebbe esclamare “Ma basta parlare di me. Parliamo di te. Tu, come mi vedi?”

Credo sia una frase di Woody Allen.

 Anche la gestualità ha la sua importanza, come la hanno certi silenzi o finta distrazione che denunciano  poca attenzione  o addirittura ostilità.

D’altra parte conversare in accordo pieno o disaccordo gentile e propositivo non sembra facile. Molto spesso noi mediamo,  non diciamo sempre esattamente o completamente ciò che pensiamo. Da questo lato è molto più sincera la conversazione virtuale. Scrivi e non sei  condizionato dall’altro. Ti senti più sicuro, puoi sviscerare fino in fondo l’argomento che ti sta a cuore. A me senz’altro viene più facile scrivere lettere, e-mail, blog perchè lascio fluire dalla mia mente e dal mio cuore ogni sentimento senza essere bloccata dal timore di ferire l’altro, o di essere troppo esuberante bloccando qualcun altro più timido o riservato.

Nella conversazione a tu per tu, gradevolissima, spontanea, viva, talvolta non si riesce ad essere se stessi al 100%.  Quando accade però si  prova un grande piacere.

Le conversazioni che più mi annoiano sono le formali, quelle in cui non si  parla di niente…E’ un mio difetto, sono impaziente… perchè anche il famoso parlare del tempo, come fanno gli inglesi, è sempre un approccio di simpatia.  Ma questo va  bene per l’incontro fugace non per ore ed ore..

Purtroppo ho ricordi di riunioni esteticamente deliziose, dove per riservatezza, educazione borghese d’altri tempi, si doveva rimanere sulle generali: pizzi e centrini, la “donna” delle pulizie, l’abbigliamento, le tappe obbligatorie della donna: fidanzamento, corredo, matrimonio, figli, garbati pettegolezzi chiamati però con un altro nome .

 Noia mortale, benchè abbia sempre apprezzato la gentilezza, le deliziose preziose tazzine da tè e i dolcetti cucinati superbamente. Ma il mio pensiero se ne andava . Io volevo parlare di libri, di arte, di vita, di sentimenti intimi,di gioie, di dolori,  di quello  di cui parlo  adesso attraverso  il blog o vis à vis  con le persone con le quali ho affinità elettive.

Insomma si può dire,  come ha scritto Camilla, che  anche l’uso di Internet può essere arricchente.

E a questo proposito anticipo già un delizioso libro basato sulla reale corrispondenza virtuale di due persone…

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IL GIOCO DEGLI OCCHI , di Elias Canetti

pubblicato da: admin - 4 Ottobre, 2010 @ 6:21 pm

cop[7]  Oggi vi faccio conoscere una Lettrice appassionata ed entusiasta: Maria Rosa che ci presenta uno dei suoi ultimi libri letti. Prima vorrei dirvi però che Maria Rosa non può seguire il nostro blog perchè non ha il PC, ma ugualmente ne sente parlare da me e da Camilla. I nostri incontri sostanzialmente sono basati sui libri e su quello che ci regalano in fatto di emozioni e illuminazioni. Sulla vita dunque. Maria Rosa legge con ardore, si siede al tavolo della cucina e con amore “beve” e si appropria di  ogni riga del libro scelto. Sottolinea, scrive brevi appunti a margine. Il suo incontro con il libro mi ricorda quello di  Machiavelli quando a  sera egli  tornava dalla campagna dopo aver controllato il lavoro della sua tenuta ed entrava nello studio per leggere e studiare. Indossava rispettosamente  un abito di velluto e si sedeva al tavolo in  attesa trepidante della conoscenza, dell’arte, del pensiero…

Ricopio parola per parola il manoscritto di Maria Rosa:

“Mai direi ad un’amica o a qualsiasi altra persona :”Leggi questo libro”. Ognuno ha le proprie esigenze e preferenze.

Vorrei  tuttavia comunicare le mie emozioni suscitatemi da un libro letto nel mese di settembre. “Il gioco  degli occhi” di Elias Canetti.

E’ il terzo volume della sua autobiografia  che è preceduto da “La lingua salvata” e da  “Il frutto del fuoco”. Li ho letti tutti e tre e non potrei dire qual è il migliore.

Io sono affascinata dalla sua scrittura, dalla capacità di descrivere momenti apparentementi semplici  e trasformarli in un pensiero toccante, emozionante. 

Insegna ad osservare ogni persona o situazione che la vita può fare incontrare. Scrive in maniera tale che ti fa riconoscere quello che tu non sai ma vorresti  esprimere, ciò è il massimo che uno scrittore può darti.

Se qualcuno possedesse questo libro vorrei leggesse  a pag. 322 ciò che egli scrive sulle lucciole:

La loro moltitudine era inquietante come se le avesse inviate un misterioso potere, risoluto ad eliminare la notte.”

Basta questo per capire che tutte le 383 pagine sono delle pennellate di un grande scrittore.

Quando termino un libro che mi coinvolge, mi riesce difficile abbandonarlo e per diversi giorni lo devo tenere vicino per rileggere qualche pagina che ho sottolineato.”

Maria Rosa

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AVERE O ESSERE, titolo aperto…

pubblicato da: admin - 3 Ottobre, 2010 @ 6:18 pm

Oggi comincio a scrivere senza avere subito il libro di riferimento alle mie sensazioni. Lo troverò cammin facendo? E’ una grigia giornata ottobrina che prevede un pomeriggio casalingo tra maglie di lane da rinfrescare, riordino, e un  riassoporare la mattinata intensa  trascorsa con tante amiche al bar di piazza Duomo.

 All’aperto nonostante l’aria freddina  ci siamo ritrovate alla spicciolata in sette… ma tante vite, pensieri , racconti a confronto. Questi sono gli oggetti a cui tengo, le storie piccole e grandi della nostra vita.  Arriva Maria Rosa con il post scritto a mano che io ricopierò per lei e vi spedirò domani. Il suo Essere, così entusiasta ed azzurro, incontra subito Elisabetta, la radiologa  in pensione che vive tra Italia e Usa. Si accendono interesse, piccole curiosità, voglia di allargare la propria Weltanshauung e ci si riesce. Si parla naturalmente di letture, passeggiate sulle lunghe spiagge della Florida sotto la luna, del particolare desiderio di stare a volte da soli per gustare più intensamente le emozioni.

  Arrivano altre amiche con l’esigenza di comunicare il sentire del momento. Cambio degli armadi? Come fare il pane alle olive senza che le olive sfuggano all’impasto? Ma non solo…lentamente chi non si conosce ancora  entra in sintonia con l’altro. Accenni a vite avventurose e proprio, ricollegandomi a Homer e& Lingley, all’accumulo di oggetti. Elisabetta ci racconta la storia di un’amica cubana che ha perso per ben due volte tutto. La prima per fuggire “nuda e cruda” al regime dittatoriale  castrista sopravvenuto dopo che lei stessa aveva partecipato attivamente alla rivoluzione cubana.Gli ideali calpestati.  La seconda quando finalmente pensionata alle Isole Vergini incappa in un uragano  che le distrugge tutto. Ora questa signora  vive a Naples, in un piccolo appartamento con l’essenziale “Una sedia, un tavolo, un letto” ci racconta Elisabetta “ed è felicissima.”

Isabella interviene e parla della quasi centenaria zia Lucia che dovette  abbandonare l’Etiopia in tempo di guerra anche lei salvando soltanto gli abiti che indossava.

Riunione interessante, gradevole, arricchente che è riuscita a parlare di “qualcosa” che non sia le mera condizione metereologica o l’acciacco sempre in agguato.

Come avrete capito per me  è sempre intrigante la questione delle cose, quegli oggetti che ci possono rassicurare, confortare, far ricordare, ma che io sento tiranni e togli-respiro. La mia vicenda personale mi condurrà a un dover smantellare forse due case, piene di tante tante cose, e ritrovarmi in uno spazio più piccolo con l’essenziale. Ciò che mi sgomenta è la fatica, la scelta, il dover “ritornare” al passato mio, dei genitori attraverso gli oggetti. Eppure nel mio cuore e nel mio pensiero “nessuna croce  manca” come scriveva Ungaretti e neppure le rose e il profumo della felicità.

Cerco un libro adatto al post. Forsi mi occorrerebbe un Vangelo, quello che mi aveva dato il Don all’ospedale per non farmi leggere “Il piacere” di D’Annunzio, ma non lo trovo.

 Cerco naturalmente “Avere o essere” di Fromm, e qui mi fermo.

Proprio  l’altro ieri riscrivendo le parole di Ingeborg Bachmann abbiamo letto lo stesso pensiero. “Quel che abbiamo è nulla. Si è ricchi se si ha qualcosa che è più delle cose materiali.”

Erich Fromm compendia il suo pensiero nel breve enunciato che l’essere è sempre  amore e creatività contro l’avere smodato spesso sinonimo di egoismo o robotizzazione dell’individuo.

Ma noi sappiamo che nella misura sta la virtù.

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HOMER E LANGLEY, di Edgar Doctorow

pubblicato da: admin - 2 Ottobre, 2010 @ 6:36 pm

cop[6] Oggi lo spazio- post è di Raffaella che ci racconta la sua ultima lettura consigliata  appassionatamente già da tempo  da Camilla. Trovo che questo scambio di entusiasmi letterari non sia soltanto informativo, ma formativo soprattutto per il nostro gruppo che si sta allargando di consigli, proposte, curiosità. I libri che leggiamo, le emozioni che ci procurano, i rimandi,  sono un collante importante e prezioso. Parlare dei libri recenti o di quelli amati nel passato di qualsiasi genere è un piacere grandissimo per me e sono certa per tutti coloro che visitano il blog. Perchè allora coloro che non hanno tempo di lasciare commenti lunghi non ci scrivono almeno un piccolo saluto?

   Carissima Mirna,

come te mi rivolgo spesso alla biblioteca perché pur amando possedere i libri più belli, si tratta proprio di una questione di spazio, “ o io o loro” ! E proprio in biblioteca trovo ed inizio a leggere, grazie ai preziosi consigli di Camilla, “Homer & Langley” ( ed. Mondadori 2010) di Doctorow che divoro in meno di una settimana. E l’argomento spazio, spazio fisico e mentale, spazio di ricordi e pensieri, è proprio il perno di questo libro ma non solo. Doctorow romanza la storia vera dei fratelli Homer e Langley Collyer. Figli di un medico benestante, vissero in una grande casa ad Harlem ai primi del Novecento. Dopo la morte dei genitori, i due gradualmente si sottrassero al mondo e cominciarono ad accumulare cose nella loro abitazione. Avevano ammassato 180 tonnellate di oggetti, spazzatura, e cose senza valore quando le autorità scoprirono i loro corpi nel 1947. Langley rimase travolto da una valanga di oggetti, lasciando Homer, cieco e dipendente dal fratello, a morire di fame.

Ma è Doctorow che riesce a fare di questa drammatica storia da scoop giornalistico un capolavoro. Già l’incipit , come suggeriva Camilla, è potente :” Sono Homer, il fratello cieco”. E’ lui l’io narrante, colui che nonostante il suo handicap, vede meglio di chiunque altro, riesce ad andare oltre, lui,Homer, vittima della “pazzia” del fratello tornato semifolle dalla Grande Guerra ma che riesce a sopravvivere e ad aiutarlo a sua volta. Fino al tragico epilogo.

Il libro però non è tragico né triste, anzi. Mentre altri scrittori si sono interrogati su come siano morti i fratelli Collier, Doctorow si chiede come abbiano vissuto queste due figure emblematiche del XX secolo, e dipinge un grande affresco del Novecento statunitense, in una escalation di tensione. Mentre il ciarpame si accumula in casa Collier, si accumulano al pari eventi epocali che si susseguono al di fuori delle mura della loro casa. E che loro vivono in piccola parte. L’epidemia di spagnola che toglie loro entrambi i genitori, la Grande Guerra, che lascia una profonda cicatrice su Langley, l’immigrazione ( la loro dolce governante),la piaga dei gangster a New York ( ne conoscono uno che poi si trasferirà in casa Collyer, con risvolti tragicomici), l’avvento dell’automobile su larga scala. E poi la musica, il jazz che risuona nella casa sulla Fifth Avenue, dove vengono organizzati dei veri e propri tè danzanti, e gli hippies, altri ospiti inattesi e non invitati che rallegrano le giornate dei due fratelli.Quando questi ultimi lasciano la casa e Homer scrive nel suo diario “ Volarono tutti fuori come uccelli da una gabbia”, inizia a rendersi visibile anche al cieco il vero e proprio declino,la rovina della casa. “ La casa a quel punto della nostra vita, era ormai un labirinto di viottoli pericolosi, pieno di ostacoli e vicoli ciechi. Se c’era luce a sufficienza era possibile farsi strada negli zigzaganti corridoi di balle di giornali, o trovare un varco infilandosi di traverso fra mucchi di oggetti vari… Ma occorreva il dono naturale di un cieco, quello di percepire la posizione degli oggetti dall’aria che li circondava per andare da una stanza all’altra senza ammazzarsi”.

Homer & Langley è un libro che vale davvero la pena leggere. I dialoghi tra i due fratelli sono di una semplicità ma allo stesso tempo di una profondità che sbalordisce. Chiudo con un esempio, una citazione della “Teoria dei rimpiazzi “ che inventa Langley ed espone al fratello.”Nella vita tutto viene rimpiazzato. Noi siamo il rimpiazzo dei nostri genitori, così come loro erano il rimpiazzo della generazione precedente…” “ Il progresso esiste ma non cambia mai niente. La gente costruisce le automobili, scopre le onde radio. E’ naturale… Ma il tempo è un’altra cosa. Avanza attraverso di noi mentre ci rimpiazziamo a vicenda per riempire i posti vuoti.” E quando Homer chiede al fratello se ci sia un posto anche per i ciechi, nonostante la risposta affermativa e rassicurante, Langley tace. “ Nei minuti successivi dovetti tendere l’orecchio per capire se Langley fosse ancora nella stanza, perché aveva smesso di parlare.Poi sentii la sua mano sulla spalla. A quel punto capii che la Teoria dei Rimpiazzi era il suo modo per definire l’amarezza, la disperazione della vita”.

Raffaella

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LA FOLLIA DELL'ASSOLUTO, vita di Ingeborg Bachmann

pubblicato da: admin - 1 Ottobre, 2010 @ 7:03 pm

scansione0020Non è semplice parlare di questo libro di Hans Hòller, insigne germanista che insegna all’Università di Salisburgo. E’ una biografia di Inge Bachmann? E’ un saggio sul potere dell’arte? E’ un compendio di brani di diario, riflessioni, poesie, filosofia ?E’ l’analisi di un malessere esistenziale estremo?

So per certo che è uno scritto impegnativo  e avvincente, che io sto leggendo quasi fosse un testo di studio. Se si può procedere con tranquillità tra i cenni biografici della nascita, della famiglia, degli studi di Inge  Bachmann, si deve però  rallentare parecchio  quando si entra nella sua concezione d’arte, di vita, di filosofia, di politica,  di ricerca della  verità assoluta. La grande scrittrice- poetessa stretta da tormenti esistenziali non riesce a trovare scampo quasi fosse stata segnata dai tragici eventi storici della sua prima giovinezza. 

 “C’è stato un momento preciso che ha distrutto la mia infanzia” racconta durante un’intervista “L’entrata delle truppe di Hitler a Klagenfurt. Fu qualcosa di così orrendo, che il mio ricordo inizia con questo giorno, con un dolore troppo precoce…Ma questa immensa  brutalità che si avvertiva, questo urlare, cantare e  marciare – il sorgere della mia prima angoscia di morte…” E’ il 12 marzo 1938 e Inge ha soltanto 12 anni.

Gli anni della guerra sono duri, il padre arruolato, i libri che il Nazismo aveva messo all’indice, nascosti nei solai e letti nei bunker. Comincia a scrivere drammi,  racconti, poesie.  Dopo il diploma si iscrive alla facoltà di filosofia dell’Università di Innsbruck. Quando si trasferisce a Vienna incontra Hans Weigel e il suo circolo letterario al Cafè Raimund.

Scrive e capisce che l’arte è il suo rifugio. “ Che devo fare? Spesso sono preda di una sconsolata depressione. Perdo ogni speranza e precipito in una disperazione senza limiti. Se solo potessi vedere ancora una volta il sole!…Mio unico amico,”l’arte è una padrona severa.”  Più tardi usando le parole di Proust parla di “legge crudele dell’arte” e poi dello scrivere come “costrizione,ossessione, maledizione e punizione.”

Necessità interiore di scrivere del dolore di lasciare la Carinzia, della sua intima disperata irrequietezza di “poter perdere la via, anzi di non trovarne nessuna“, della consapevolezza del problematico rapporto tra i sessi e della posizione del potere maschile che le fa vedere anche la la sua arte sottomessa ad esso. L’Io femminile  invece viene spesso rappresentato imparentato  con il sogno e senza difese, come in Malina dove  c’è  un padre che sembra volerle togliere la parola alla figlia, tagliandole la lingua.

Scrittrice complessa. Io ho sentito parlare di lei alla radio, grazie alla mitica Radio 3, ho letto alcune poesie, ma non sono ancora entrata a grandi passi nella sua opera. Ma, come sempre, rimango affascinata dalla vita delle persone particolari, tormentate, complesse e ricche.

Ha due importanti relazioni amorose una con Paul Celan, l’altra con Max Frisch; abuserà di alcool e farmaci, dai quali non trovo scampo neppure rifugiandosi in Italia. Morirà nel settembre 1973 per le gravissime ustioni riportate in un incendio.

E’ Paul Celan l’incontro determinante sia per la vita che per la poetica di Inge. Di lui scriverà, dopo la sua morte, “una delle frasi più grandi della letteratura tedesca dopo il 1945” “La mia vita finisce, perchè lui è annegato nel fiume durante la deportazione, era la mia vita. L’ho amato più della mia vita.”

La vita di Celan dopo l’uccisione dei genitori da parte dei nazisti e l’esperienza del campo di lavoro è una ricerca di qualcosa “che sia raggiungibile, ma abbastanza lontano”. Le sue poesie diventano presto famosissime tra cui “Fuga di morte”. In lui  sempre la ferita sanguinante  dell’annientamento di un popolo.Dell’olocausto.

Nonostante l’amore e l’intenso dialogo letterario, lo scambiarsi di sentimenti e immagini poetiche, Inge e Paul non riescono a vivere insieme. Scrive Inge in una lettera a Hans Wegel: “sembra che per ragioni demoniache …ci togliamo a vicenda l’aria per respirare.”

Libro impegnativo come dicevo e del quale si può parlare soltanto un po’ per non scrivere  una “tesina”. Dei tanti capitoletti in cui è diviso lo scritto, molti dei quali recano il titolo tratto dalle poesie di Inge, scelgo di finire con quello “Verrà un giorno la festa”che racconta del suo  soggiorno italiano . Dapprima a Ischia, poi a Roma dal 1953 al 1957.

I suoi pensieri, il suo sguardo sull’Italia e sulla società sono intensi. Che differenza dall’immagine  distorta nel bene e nel male che certi film stranieri danno del nostro paese e della vita in generale.

Inge passeggia per Roma., osserva i suoi operai, guardo il Campo dei Fiori dove “Giordano Bruno continua ad essere bruciato. Ogni sababto, quando smantellano le bancarelle intorno a lui e restano solo le fioraie…gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti e danno fuoco al mucchio…”

La sua ricerca verso l’assoluto è faticosa e sofferta. Dopo aver letto, negli anni Sessanta un libro sull’integrazione europea  annota “…Perfino il mio stare con le mani in mano mi pare a volta una sorta di “consenso”, un’accettazione del male, un dire di sì a un mondo che non posso approvare….”

E in una dichiarazione per il documentario di Gerda Heller : Ingeborg Bachmann a Roma “In cerca di frasi vere”, 1973,  ci lascia queste ultime parole:

Quel che noi abbiamo è nulla. Si è ricchi se si ha qualcosa che è più delle cose materiali. E non credo a questo materialismo, a questa società dei consumi, a questo capitalismo, a questa mostruosità che qui si perpetra, a questo arricchimento della gente che non ha nessun diritto di arricchirsi alle nostre spalle. Credo veramente in qualcosa, e allora dico “verrà un giorno”. E un giorno verrà. Sì, probabilmente non verrà perchè ce lo hanno distrutto, sono tanti millenni che ce lo distruggono. Non verrà e ciononostante ci credo, perchè se non potessi più crederci, non potrei neanche più scrivere.”

  

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