IL MAESTRO DI DELFT, ovvero voglia di Vermeer

pubblicato da: admin - 14 Ottobre, 2010 @ 7:14 pm

scansione0005scansione0004Oh, la pittura! Altra  grande passione dopo la lettura! Tanti i pittori da me amati, ma fra i preferiti il misterioso Johannes Vermeer, genio olandese del XVII secolo. Imparai a conoscerlo attraverso Marcel - intendo Marcel Proust - che alla “Veduta di Delft” dedicò pagine memorabili.

 Naturalmente ho sempre comprato libri o fascicoli dedicati alla pittura ( ho parecchi de “I maestri del colore”) e per me è una grande gioia andare nei musei. Ricordo la prima volta al Louvre… emozioni così forti che non posso scordare!  Le mie passioni oltre a Leonardo e molti altri italiani sono  gli Impressionisti, Van Gogh ( parlerò un giorno delle sue “Lettere a Theo”) ecc.

Ma ciò che Vermeer mi dona è qualcosa che mi intriga particolarmente. Mi piace entrare nel  mondo colorato e tranquillo della borghesia olandese, “entrare” nelle sue case dalla luce obliqua dove uomini e donne compiono semplici azioni come versare il latte, leggere una lettera, suonare la spinetta.

Perciò questa biografia scritta da Antony Bailey  ha un posto d’onore nei miei scaffali insieme al romanzo di Tracy Chevalier “La ragazza con l’orecchino di perla”.

Johannes Vermeer (1632-1675) è il più misterioso tra i grandi geni delle pittura europea. Poche tracce della sua esistenza, circa trentacinque le opere lasciate. Dopo la morte è rimasto nell’oblio fino alla metà dell’Ottocento quando finalmente venne riconosciuta la sua grandezza.

Che quiete nei suoi quadri! Sono dipinti silenziosi, poco solenni, mai celebrativi.  Donne accanto alle finestre a riquadri, leggermente socchiuse, che aspettano, scrivono, ricamano o suonano. Sono eleganti, indossano  perle luminose. Troviamo spesso una ricca casacca di seta gialla proprietà  della moglie Katharina.  Nel romanzo della Chevalier  Katharina ci viene descritta come una moglie  gelosissima di una  giovane servetta affascinata dai colori, dalla camera oscura, dal maestro stesso che come un mago riproduceva, trasfigurandola  con passione, la semplice vita attorno a lui.  “La ragazza con turbante” che forse indossò l’orecchino di Katharina ci guarda con sguardo enigmatico, sorridendoci con labbra “sensualmente dischiuse”, un gesto quasi inaudito per la morale del tempo.

La  numerosa famiglia del pittore ( quindici figli!) si trasferisce ad un certo punto presso Maria Thins, l’agiata madre di Katharina, nel quartiere papista. Possiamo conoscere l’arredamento della loro casa ammirando i suoi quadri: il pesante tavolo di quercia riprodotto varie volte e le diverse sedie ricoperte in cuoio, i tappeti…

Verso gli ultimi anni della sua vita le finanze cominciano a scarseggiare, anche perchè  la vendita delle sue tele  si blocca con l’avvento della guerra  franco-olandese del 1672.

Antony Bailey ci racconta che la vita del maestro era dominata dalle donne: la madre  viveva vicino a lui ancora nel 1665, pure la sorella Gertrury abitava non lontano. Nell’Oude Langendijck, come già detto, viveva con la suocera, la moglie, parecchie figlie e poi c’era sempre una domestica che spesso posava per il maestro, come fece Tanneke Everpoel che posò per “La lattaia”. Nonostante gli artisti olandesi celebrassero l’abbondanza del cibo in nature morte e scene di cucina piene di fromaggi, frutta pesci, selvaggina, verdura, l’unico quadro in cui Vermeer ci concede  un soggetto mangereccio è proprio “La lattaia” dove oltre al latte versato troviamo una focaccia. Quadro stupendo ci spiega Bayley:la cuoca ha il braccio nudo dal gomito in giù…il latte sembra non dover mai finire, versato dalla domestica -simile a una dea della terra- è una benedizione inesauribile.”

Dare il buon esempio è il compito della pittura olandese di genere, non oziare, non bere liquori, ma suonare, scrivere, ricamare nella tranquilla e ovattata sicurezza della propria casa.

 

Oggi pomeriggio con Stefania davanti a un ricco strudel abbiamo bevuto il tè in deliziose tazze leggere…luce di tardo pomeriggio, colori caldi…quasi quasi ci siamo sentite dentro un quadro di Vermeer.

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L'AMORE TERRENO, e la ricerca dell'amore ideale

pubblicato da: admin - 13 Ottobre, 2010 @ 6:45 pm

imagesCA50SWB7scansione0003Roma, Berlino, Cagliari.  Questi i luoghi principali dell’educazione sentimentale di Albert, uno studente tedesco  di storia dell’arte. Romanzo di formazione maschile scritto con prosa chiara e brillante da  Hans Ulrich Treichel, classe 1952.

E’ bene lasciare qualche volta le mie letture di donne per entrare nei pensieri più nascosti del’uomo. Mi accorgo dei diversi percorsi che uomini e donne affrontano per crescere.

Albert è insicuro, sensibile, tormentato dall’amore sensuale e terreno che desidera ardentemente pur restando ancorato allo spirito, all’arte  e all’ideale.  E’ ossessionato dall'”Amore vincitore” di Caravaggio del quale vorrebbe scrivere la tesi a conclusione dei suoi studi. Soprattutto verso questo personaggio simbolico raffigurato in  una spudorata nudità, Albert prova invidia . Vorrebbe anch’egli essere  spudorato e innocente, mentre invece  vive con ansietà e timori le sue poche storie d’amore.   Gratta sulle riviste  le immagini di ragazze svestite, graffia persino un dipinto a olio visto in un bar, ed infine ” aveva cominciato a grattare e a raschiare se stesso, fino a quando non si era procurato delle ferite di piccole dimensioni che gli dolevano, sì, ma che gli facevano anche bene. Lo tranquilizzavano.”   E’ uno studente in attesa di qualcosa di liberatorio, ma che per il momento rimane sempre deluso.

Da Roma dove studiava con amici è costretto a tornare a Berlino e qui, una sera, in un bar italiano incontra Elena, una  bellissima ragazza di Cagliari dai capelli e occhi scuri,”una di quelle bellezze brune e malinconiche che attraversano a volte le piazze illuminate del Mezzogiorno“, e con la quale, a termine del suo percorso  erotico sentimentale, partirà alla volta dell’Italia per un altro classico  viaggio, quello di formazione di un “giovane eroe”.

Mi è piaciuto leggere dell’Italia in questo romazo tedesco. Non solo di pittura, cibo, canzoni come “Piccola e fragile”, ma anche dei film di Pasolini.

Il percorso di Albert è lungo e tortuoso e ci viene raccontato spesso in modo ironico con la tecnica del flash back. Conosciamo perciò la sua prima ragazza del Collegio, le varie attrazioni passeggere , il suo rapporto con la madre, le sue disavventure ed infine l’incontro decisivo, quello che lo rende “grande” e pronto per la vita reale tra ideali e sensazioni terrene.

Spesso noi donne dimentichiamo come può essere difficile  l’entrata nel mondo adulto dai parte degli uomini. Sottovalutiamo talvolta la loro fragilità, la loro insicurezza e la tensione che provano per potersi sentire sempre all’altezza del proprio sesso.

L’educazione sentimentale femminile “dei miei tempi” era senz’altro diversa da quella maschile, chissà, oggigiorno sarà paritetica, ma quando ero ragazza io  tutto veniva sublimato all’amore ideale dimenticando per moralismo e pregiudizi il naturale desiderio dell’amore terreno.

Se avessi letto allora un libro simpatico e chiaro come questo di Hans  Ulrich Treichel forse avrei capito meglio i ragazzi…invece quanti fraintendimenti…!

Ma oggi…è un’altra epoca? Che ne dite?

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LA MIA AFRICA, di Karen Blixen

pubblicato da: admin - 12 Ottobre, 2010 @ 6:41 pm

images[4]nairobileo1[1]Pensieri verso l’Africa oggi, durante il riposino convalescenziale. Innanzitutto perchè sto leggendo la descrizione  delle case di Karen Blixen  nel libro presentato in agosto da Enza “La scrittrice abita qui”, poi perchè mi è rimasto impresso il racconto autobiografico di Brunella che ha vissuto a lungo in Nigeria e in Ghana. Consiglio di leggerlo cliccando sul suo link che riporterò in calce.

Tutti conosciamo “La mia Africa” di Karen Blixen come lettura o nella versione cinematografica con Meryl Streep.

 La Blixen restò in Kenya dal 1914 al 1931 tentando di far funzionare, senza successo, la sua piantagione di caffè.  Fu costretta a tornare in Danimarca, nella sua casa di famiglia a Rungstedlund dove continuò con civetteria a  fregiarsi del titolo di baronessa ottenuto sposando Bror Blixen, suo secondo cugino, che le trasmise la sifilide e dal quale aveva già divorziato. Sappiamo del suo grande amore per Denys Finch Hatton morto in un incidente aereo e sappiamo del suo grande attaccamento all’Africa. Per lei l’antichissimo continente era il luogo puro,  il più naturale,  il più vicino  e somigliante all’Eden preparato da Dio.

Quante persone parlano del “mal d’Africa”! Forse un magico ricongiungersi  alle radici della nostra umanità?

“Avevo una fattoria in Africa ai piedi degli altipiani Ngong…” comincia il suo romanzo autobiografico. Possiamo immaginarci di sentire la sua voce roca che incanta, il suo raccontare  che ammaliava ogni ascoltatore. Denys le chiedeva sempre – come a una Sherazade - una storia da gustare e far sognare: “C’è una storia per me?”

Forse non è vero, come taluni sostengono, che l’Africa sia stata per la Blixen solo una parentesi. “L ‘Africa è stata la forza che ha spinto la freccia del suo destino, nella sua vita l’Africa è stato tutto . Vivere in quel luogo significava confrontarsi ogni giorno con il destino, ma sentirsi anche una regina. La Blixen aveva bisogno di dimensioni bibliche per soddisfare la sua megalomania, ci spiega Sandra Petrignani. Nonostante le avversità economiche e  il marito fedigrafo, gli anni in Kenya furono anni di grande ispirazione, di una grande passione, di amore verso gli abitanti, i Kikuyu che le riconoscevano una relazione diretta con la luna, la chiamavano appunto “Luna Nuova” perchè era sempre la prima ad accorgersi del rinnovarsi dell’astro. 

Diceva “Occorre essere tutt’uno con la natura… tenere stretti i legami con i morti e con il passato” come appunto le avevano insegnato i popoli primitivi dell’Africa con i loro canti e danze tradizionali. E dalle donne aveva imparato a farsi un po’ strega. In una conversazione radiofonica  osservò “In Africa tutte le donne anziane sono pratiche di magia“. E per la Blixen, lasciata l’Africa, perduta la giovinezza, non restò che far deflagrare la sua abilità manipolatoria dell’affabulazione. “ Una conquista del fare sull’essere“, “un’altra forma di potere sul maschio.” Cominciò  a scrivere a 49 anni.

 Il giovane poeta Thorkild Bjornvig instaurò una relazione tempestosa con la scrittrice già quasi sessantenne  nella cui casa  danese abitò per alcuni anni.

 La Blixen morirà nel suo letto di morte naturale, ma  si può anche affermare per  denutrizione ( sembra che negli ultimi tempi mangiasse un’ostrica e due asparagi con un po’ di champagne…).

 A lei  piaceva essere magra come il leone africano:  ossa, muscoli, forza.

 *      *     *       *         *          *

Ricopio il commento di Brunella  al post sul Diario di Héléne Berr

Ciao carissima, un altro titolo si aggiunge alla lunga lista di quelli che devo ancora leggere.
Spero tu stia bene oggi. Ti faccio i miei complimenti per il tuo blog, veramente interessante e ricco di contenuti. Ho provato ad iscrivermi alla community ma non accetta i miei indirizzi email… ma oggi ero ancora stanca, riprovero’ domani.
Ti volevo far leggere un mio breve racconto di un periodo passato in Africa… ti copioincollo il link:
http://lareteinrosa.wordpress.com/2009/08/09/rullo-di-tamburi-odor-di-sangue/

Ciao, spero di risentirti presto, Brunella compagna di “corsia”

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POESIE di Sylvia Plath

pubblicato da: admin - 11 Ottobre, 2010 @ 6:16 pm

Eccomi di nuovo alla tastiera per riprendere il mio ritmo giornaliero e parlare di libri e sensazioni.

Grazie a Riccardo e a Stefania ho potuto rimanere in convalescenza dopo un piccolo intervento in  day-hospital. Non ho scritto, ma ho letto e soprattutto ho pensato a lungo. Come sempre ho vissuto questa esperienza in maniera intensa, non “lineare”  ma “a spirale” , come avevo anche scritto in una mia poesia.

Dapprima non mi ricordavo neppure che l’8 ottobre dovevo entrare in ospedale, la vigilia invece mi è venuta l’ansia e la voglia di “fuggire”, il giorno stesso  è subentrata la volontà  necessaria di procedere alla svelta.

Devo essere sincera, ora, dopo alcuni giorni, tutto mi è sembrato tranquillo, facile e neppure doloroso, grazie all’anestesia totale. In più ho conosciuto due  simpatiche pazienti,  Brunella e Mirella,  tanto che finito l’effetto dell’anestesia o forse anche grazie ad essa ci siamo messe a parlare con allegria, vivacità, spontaneità  di  tantissimi argomenti, soprattutto  di donne, uomini, esperienze.

Ma mentre mi trovavo nella saletta antistante la sala operatoria, alla mercè di anestetista e di chirurgo mi è precipitata addosso la  consapevolezza della  nostra  fragilità . Pur tra gentilissime infermiere, dottoresse bravissime e sorridenti  (“Tutte donne in ginecologia,” un gineceo!” aveva commentato seccamente il mio medico) ho provato un brivido freddo  di timore, di nudità estrema e di vacillamento della mia identità.

All’infermiera di nome Silvia ho chiesto se ricordava  alcuni versi della poesia di Leopardi, poi mentre mi stavano preparando nella saletta fredda spiegandomi con estrema gentilezza cosa mi sarebbe successo con l’anestesia, ho ripensato a Sylvia Plath e alla sua sofferenza.

Dunque oggi ho rintracciato una  sua bellissima poesia.

Ho già scritto delle vicissitudini di Sylvia, del suo malessere esistenziale, del primo tentativo di suicidio, dell’elettrochoc e dei vari ricoveri in ospedale .

Che differenza però dalla mia giornata in una stanzetta rosa e verde con  nuove amiche e figlia accanto, a ciò che ci descrive la Plath in:

TULIPANI

I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno. / …Sto imparando la pace, da me quietamente posando / come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto, / queste mani./

Io non sono nessuno; non c’entro con le esplosioni. / Ho dato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere / e all’anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio / corpo.

…Le infermiere passano e ripassano, non disturbano, /passano come gabbiani all’entroterra nelle loro cuffie/ bianche… /

 Per loro il mio corpo è un ciottolo, vi attendono come  /l’acqua / tende ai ciottoli sui quali deve scorrere, gentilmente / levigandoli. / Mi portano il torpore nei loro lucenti aghi, mi portano / il sonno. / Adesso ho perduto me stessa sono stufa di fardelli…/

Io non volevo fiori, volevo solamente / giacere a palme riverse ed essere tutta vuota. / Come si è liberi, liberi da non credersi…/ I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male. ../ La loro rossezza parla alla mia ferita…/

Mi sono quindi ritrovata a parlare di poesia, per me il linguaggio per eccellenza, il linguaggio che riesce a scavare fino in fondo le nostre emozioni. E ho voluto parlare di ospedale, non  solo per questa mia breve esperienza, ma perchè è un altro aspetto della nostra vita. Se non direttamente tutti abbiamo avuto a che fare con dolorosi percorsi ospedalieri, quando il mondo dei sani si scinde nettamente da quello dei malati. Dobbiamo tenerne conto.

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MARE DI PAPAVERI, di Amitav Ghosh

pubblicato da: admin - 10 Ottobre, 2010 @ 10:30 pm

                                                      Anche oggi lascio la parola scritta a Riccardo che, insieme a Stefania, mi ha permesso alcuni giorni di stand bycop[3].  Trovo che conoscere le letture preferite di altre persone sia sempre molto coinvolgente e interessante.

Approfitto poi per dare il benvenuto a Brunella che ha lasciato un  commento  al Diario di Hélène Berr e un link per leggere un suo racconto.

 

Neri Pozza Editore, 2008

Pagine 538, €18,50

 

Innanzi tutto, l’Autore: nato a Calcutta nel 1956, ha studiato ad Oxford, vive a New York ed è considerato uno dei maggiori scrittori indiani. Ed allora, perché no? Perché non iniziare a conoscere sempre meglio anche quella cultura, usualmente un po’ troppo lontana dalle nostre “abitudini culturali”?

Si tratta qui di un romanzo che per l’ambito in cui si svolge la narrazione potremo definire “storico” la cui lettura vi caldeggio del tutto tranquillamente. D’altra parte infatti a chi vuole conoscere la letteratura e la storia italiana, non potremo fare a meno di suggerire anche “I promessi sposi”, non credete?

E poi, ormai lo sapete, io sono “malato” di mare, vele, vento e il romanzo che vi presento inizia alla fine dell’inverno con una “accostata” di un enorme veliero a due alberi alla foce di un fiume indiano le cui sponde sono incorniciate da due lunghe lingue di ghiaccio: i petali dei papaveri, bianchi data la stagione: “era come se la neve delle cime himalayane fosse scesa sulle pianure in attesa della festa di Holi con la sua primaverile profusione di colori”.

Siamo intorno al 1838 e la nave è una goletta. Sì, proprio quel tipo di veliero nato alle Bermude, molto “boliniero”, cioè velocissimo nel risalire il vento con un ottimo angolo (sino a 25 nodi, oltre 40 km/h, moltissimo anche per una moderna nave a motore!), adottato dai coloni americani nella lotta di indipendenza contro l’Inghilterra e qui, nell’Oceano Indiano e dintorni, usato per il contrabbando, il trasporto di schiavi e di prigionieri ed anche nella “guerra dell’oppio”.

Per i non addetti ai lavori: riconoscete le golette dallo scafo lungo e sottile, dal bordo assai basso, dai due alberi molto inclinati, quello più a prua, il “trinchetto” più basso del secondo, l’albero “di maestra”. Trinchetto e maestra portano due rande enormi, vele molto potenti, pericolose da manovrare data l’enorme concentrazione della forza aerodinamica che raccolgono. Inoltre le golette hanno un terzo albero, il bompresso, a prua, proiettato orizzontalmente in avanti, molto lungo, sul quale sono armati molti fiocchi.

Dicevamo “guerra dell’oppio”, già, perché anche di questo si tratta, della guerra che noi europei abbiamo portato, per ben due volte, alla Cina, “colpevole” di non voler più importare l’oppio che gli Inglesi facevano coltivare ai coolies (rectius, schiavi) nella colonia indiana, volendo in tal modo l’Albione pareggiare con queste sue esportazioni la propria bilancia dei pagamenti, altrimenti “in rosso”.

Sulla nave i passeggeri ed i membri dell’equipaggio, di ogni più svariata estrazione, sono tutti protagonisti ed ognuno quindi trova spazio nella “propria storia”. Ne viene fuori la descrizione di un “popolo multi popolo”, embrione della nascita dell’India moderna dalla mescolanza di etnie e culture diverse.

Le pagine da leggere sono tante, è un libro che “dura molto”, che al di là delle storie ci arricchisce di Storia e che non si “interrompe di leggere”.

A questo punto vi lascio alla lettura con il saluto di noi velisti …

 

… Buon Vento! (E buona lettura)

 

Riccardo Lucatti

 

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MAESTRO DI TE STESSO, o l'arte di "ri-programmarsi"

pubblicato da: admin - 9 Ottobre, 2010 @ 6:09 pm

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In guisa di blogger ad interim in data odierna e per privilegio di sangue, ricevo mandato dalla “original” blogger per un post e per la sua auto-presentazione. Dopo la “ciclosofia” di Riccardo Lucatti, ecco un altro manuale, questa volta incentrato sulla musica, ma facilmente fruibile da tutti, “musicofagi” e non.

 

Sono molto contenta di poter presentare oggi un libro un po’ particolare, non una storia o un romanzo epistolare, ma un manuale di introspezione sapiente, un aiuto da parte di due artisti di profonda ed incrollabile fede nelle risorse umane verso non solo i colleghi, ma verso tutti coloro che vogliono rimettersi in cammino nella ricerca personale.

 Federica Righini e Riccardo Zadra sono stati per quattro anni i miei maestri di pianoforte. Assieme, all’Accademia Pianistica di Padova, ci siamo esplorati e confrontati su una moltitudine di temi, in gran parte musicali e in ugual parte personali. Il loro aiuto per la mia crescita umana e musicale è stato incommensurabile e ancora ne sento un’importante influenza. Recentemente è uscito il loro libro, frutto di anni ed anni di ricerca ed esperienza, ed è già diventato un caso editoriale.

 Domande come: cosa sto facendo? Dove tendo? Quali sono i miei obiettivi? E le strategie per attuarli? Sono in armonia con me stesso in questo processo? Dove metto le mie emozioni e quali attivo? Quali sono le mie convinzioni profonde? Possono esse frenare il mio cammino di realizzazione? Sono allineato/a con le mie aspirazioni? – sono domande che ogni musicista dovrebbe porsi, non una, ma molte volte e in periodi diversi della sua crescita artistica. E tuttavia sono domande – suggeriscono gli autori – che tutti potrebbero porsi, almeno una volta nella vita, proprio per migliorare la qualità dell’esistenza, attivandone pienamente le risorse.

 Presentare questo libro nel breve spazio del post è impresa improba, tanta è la sostanza presente in ogni capitolo. Sicuramente vorrei soffermarmi sulla scelta degli autori di applicare alcune tecniche della PNL – Programmazione Neuro Linguistica – alla musica e ai musicisti. Su cos’è la PNL, nata (ovviamente) in America negli anni ’70, cito dal Capitolo I: un insieme di strumenti raffinati e potenti per favorire e accelerare i cambiamenti delle persone in direzione del loro successo e della loro realizzazione. La PNL studia le strategie e i processi interiori di coloro che raggiungono risultati di eccellenza in ogni ambito, per codificarli in un modello fruibile da chiunque.

 Una tecnica potente dunque, e facilmente avvicinabile da noi Occidentali perché creata con i nostri mezzi e per i nostri processi mentali. Ma Federica Righini e Riccardo Zadra non si limitano a questo. Nel capitolo VII, “La musica nel corpo,” ci sono molti suggerimenti su tecniche diverse per riprendere contatto e riallineare il proprio corpo sugli obiettivi prefissati. Si parla quindi di Yoga, arti marziali, Tai Chi come discipline orientali, dei metodi Feldenkrais, Alexander, Rolfing, Trager, Ribirthing, Mezières, Pilates, Tomatis, Bioenergetica, Integrazione posturale, Eutonia, Biodanza, Gyrokinesis come metodi sincretici, tutti esperiti dagli autori.

 Tutto ci può aiutare per ritrovare l’allineamento mente-corpo e soprattutto l’ “entusiasmo” della piena realizzazione che, come ci ricordano gli autori, deriva dal greco “essere nel Dio” (en theòs) . Come viaggio nelle nostre convinzioni profonde, nei dubbi, nelle negazioni auto-imposte e nelle paure, questo manuale descrive, chiede, propone, e mai impone. Il tono è tranquillo e non ci forza mai. Anche in argomenti delicati e personali, gli autori illustrano, citano esempi, suggeriscono esercizi. Pur essendo un manuale, si fa leggere con interesse e non solo da musicisti come me, ma veramente da tutti (di musica si parla in realtà come spunto per una più vasta indagine, proprio perché nella musica le problematiche di gestione della sfera emotiva e dell’allineamento degli obiettivi, sono molto evidenti).

 Per concludere, da questa lettura impariamo a considerarci “maestri di noi stessi,” ri-osservandoci, ri-comprendendoci, ri-allineandoci, e perché no, ri-amandoci e “ri-spettandoci.” Impariamo ad “allenarci” alla felicità e ad essere nel “qui ed ora” della nostra vita, espandendoci all’universo. C’è un passaggio nel capitolo VIII “La via del successo e il richiamo del daimon” che vorrei citare interamente, anche con l’esercizio annesso:

Si dice che quando ciò che vuoi dalla vita si incontra con ciò che la vita vuole da te, l’intero universo cospira per la tua realizzazione: è ciò che gli antichi cinesi chiamavano ‘essere nel Tao’ e gli antichi greci kairòs.

Ecco l’esercizio (applicabile a tutti):

 Chiudi gli occhi e ricorda quel momento della tua vita nel quale hai scelto la musica come la tua strada, in cui hai provato quel qualcosa che ti ha fatto decidere, senza ombra di dubbio, che volevi suonare e fare il musicista. Concediti un po’ di tempo per rientrare pienamente in quella fase della tua vita. Cosa facevi? In quale ambiente ti trovavi? Quali persone ti erano intorno e cosa ti dicevano? Cosa suonavi e come? E soprattutto: quali sensazioni ed emozioni provavi? Quali valori ti guidavano? Cosa ti ha fatto dire: sì, questo è quello che desidero? Ora ritorna al presente, alle sensazioni che provi attualmente quando suoni. Il contatto con questa energia è ancora vivo, luminoso, oppure è sfuocato, nascosto? Quali pensieri o emozioni si frappongono fra te e la tua vocazione?

 Un bel regalo, questo libro.

 Stefania Neonato

 

 

 

 

 

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PICCOLO TRATTATO DI CICLOSOFIA, di Didier Tronchet

pubblicato da: admin - 8 Ottobre, 2010 @ 8:48 pm

14 set 2010 (1) Finalmente uno sguardo maschile sui libri!  E’ sempre Riccardo che ci offre spunti interessanti e divertenti di lettura. Oggi poi lo possiamo conoscere in tutta la sua sportività. Qui è a Vason, raggiunta dopo 1450 mt di dislivello da Aldeno Cimone Garniga Viotte. Ci spiega “La mia faccia non è grinta…E’ stanchezza

Il mondo visto dal sellino

Il saggiatore Tascabili

153 pagine, €9,00

 

“Ciclosofia” ovvero l’insieme delle idee, delle intuizioni e delle sensazioni nate sulla bicicletta. Infatti, miei cari, io non vado solo in barca a vela e con gli sci … ma anche con la bicicletta! Ed ecco qui un meraviglioso manuale ciclosofico. Alcune perle:

 

La differenza tra la visione del mondo del ciclista e quella dell’automobilista è assai profonda: a livello di culo. Quello del ciclista, leggermente all’indietro favorisce il decollo della colonna vertebrale. La postura da aristocratico britannico è simile a quella delle statue antiche e porta con sé una visione dinamica che testimonia una grande fiducia in ciò che la vita ci riserva. Il posteriore dell’automobilista è rattrappito nella molle concavità del sedile ed implica nel suo proprietario una posizione semifetale che ne tradisce il ripiegamento su di sé, all’interno di un’illusoria sicurezza placentare che si infrangerà al primo urto.

Nessuna delle piccole sofferenze quotidiane resiste ad un buon colpo di pedale.

Nel caso di piccole depressioni, spesso è il movimento che salva, non la fuga, bensì il cambiamento del punto di vista. 

Il cattivo tempo? Dopo tre colpi di pedale il ciclista possiede il proprio impianto di riscaldamento integrato.

La pioggia? Benché sferzato dall’acqua, tutt’a un tratto il ciclista abbandona l’idea che la pioggia sia nemica e la accoglie come una carezza del cielo, pensando al piacere primordiale della cioccolata calda al rientro.

La bicicletta e l’automobile ovvero la farfalla ed il bulldozer: la farfalla durante il suo tragitto si arricchisce, il bulldozer distrugge ciò che incontra.

La sensazione di fragilità che permea il ciclista acuisce la sua attenzione al mondo: egli condivide tale attenzione con la gazzella.

Ciò che colpisce il neociclista, strappato dal sedile della sua auto, è soprattutto la vastità della visuale.

 La bicicletta fende sottilmente l’atmosfera che si richiude senza lasciare alcuna scia dietro di sé, come farebbe una fragile barchetta su un mare calmo.

 

Alla fine, ciò che viene rimproverato a noi ciclisti al termine di un processo perverso di rovesciamento dei valori, è la nostra silenziosità!

Da quando c’è il motore, c’è competizione. Con la bicicletta no.

La geografia di una città per l’automobilista è a due dimensioni: destra, sinistra. Per il ciclista c’è una terza dimensione, la salita-discesa.

Il tracciato dell’automobilista per andare dal punto A al punto B in città è assai complesso, pieno di ghirigori, inversioni di marcia etc.. Quello del ciclista è lineare. 

Due biciclette all’entrata di un campo, una da uomo ed una da donna, sono uno dei più bei simboli d’amore che si conoscano. D’altra parte “vèlo” è l’anagramma di love. Ma anche di volè, quando te la rubano!

Sulle portiere delle auto dovrebbe essere scritto: “Nuoce gravemente alla salute”.

Il ciclismo è nuotare nello spazio.

 

Identikit dell’Homo Machinans:

  • Individualista: più io che noi

  • Competitivo: con la sindrome del vrum vrum

  • Maschilista: macchina grande, attributi forti

  • Aggressivo: sono circondato da paranoici che ce l’hanno con me.

  • Manca del senso della realtà: esiste anche un mondo attorno alla mia macchina?

  • Affetto da polluzione diurna: l’ho ancora fatta nel mio strato di ozono

  • Con il culto dell’appartenenza: mostro, quindi sono

  • Con il culto del superfluo: mi è indispensabile perché non ne ho bisogno.

 

E tanti, tanti altri insegnamenti e riflessioni!

Dai, leggetelo questo libretto, è fa-vo-lo-so! In realtà esso è assai più profondo di quanto le mie citazioni possano lasciar trasparire. Sono sicuro che, al di là della bicicletta, abbiamo tutti da imparare dalla ciclosofia. Infatti, “ridendo castigat mores” che non vuol dire che si diverte mentre castiga i negri …

Buona bicicletta a tutti!

Riccardo Lucatti

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La;nina mala; del Nobel Mario Vargas Llosa

pubblicato da: admin - 7 Ottobre, 2010 @ 8:37 pm

2515158[1]llosa_280xFree[1]Il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato al peruviano Mario Vargas Llosa, autore di moltissimi romanzi e saggi.  Scrittore prolifico, giornalista, politico, egli  si definisce “schiavo della letteratura”.

 Nato nel 1936, vive per molti anni in America Latina, si interessa presto di politica, di società, di individui. Dalle iniziali posizioni di sinistra negli anni ’90 si avvicina più tardi a posizioni conservatrici. Rimane però deluso dalla svolta autoritaria del regime per cui decide di trasferirsi a Madrid.

Vargas Llosa ci presenta l’uomo a tutto tondo, sottolinenandone soprattutto gli aspetti di ribellione e delusione nei confronti del potere.  I suoi sono personaggi particolari che si ricordano a lungo come la “nina mala,” la protagonista del romanzo di cui parlo oggi:  “Avventure della ragazza cattiva“.

Ma è veramente una cattiva ragazza questa donna che noi incontriamo giovanissima a Lima mentre cerca di intrufolarsi negli ambienti che contano? La si può definire un’arrampicatrice sociale? Doveva rimanere nella sua periferia povera e brutta?

In questa società ci sono certe regole, certi pregiudizi, e tutto quello che non vi si adatta sembra anormale, un delitto o una malattia,“ci dice l’autore in un suo aforisma.

Il giovane Ricardo si innamora appena la incontra, ma lei gli sfuggirà per gran parte della vita. Le strade del mondo sono infinite: i due si reincontrano  negli ambienti esistenzialisti di Parigi, nella swinging London dei Beatles e di Mary Quant, nei torbidi ambienti notturni di una inquietante Tokjo. Attraversano i luoghi e la storia degli anni Sessanta. Per caso? Per destino? Lui la cerca, lei fugge e si nasconde, ma sempre gli riappare come l’icona dell’ “eterno femminino” sognato da molti uomini. Per lui questa donna è come un “fuoco fatuo che lo incendia di felicità” per brevi periodi, lasciandolo poi stremato in attesa. Ricardo attraversa l’inferno nella ricerca di questa “ragazzaccia,” ma questo è tutto ciò che vuole: passione, follia, sesso, gioia, delirio, disperazione, insomma, un amore estremo.

E cosa c’è di più intenso che essere innamorati?

Dal canto suo la “nina mala,” della quale forse non viene detto il nome, è un caleidoscopio di figure femminili: dalla quindicenne desiderosa di elevarsi, alla guerrigliera filo-cubana, alla bigama lady inglese, alla compagna di un  ambiguo affarista giapponese. E i suoi mille volti, il suo cambiare identità,  sono forse lo specchio del malessere dei nostri tempi incerti, così mutabili, che alimentano in fondo al cuore una perenne sensazione di esilio?

La sua vita sembra border line, sempre su un pericoloso filo del rasoio, ma ciò  sembra appagare  appieno la sua sete di vita e di esperienze.

Ricardo riesce spesso a salvarla da pericolose situazioni durante i  loro fugaci e misteriosi incontri. Intanto gli anni passano…

La donna che appare più volte, quasi magicamente, è un elemento ricorrente della letteratura latino-americana. Nei suoi “Racconti Raminghi” Marquez descrive  la “donna-indovina”  che al protagonista appare sempre in case e città diverse, come fosse una costante della sua vita.

Di Mario Vargas Llosa ci sarebbe da leggere tanto. I suoi libri sono tutti best-sellers da  “La casa verde” a “La conversazione nella cattedrale”, da “I quaderni di Don Rigoberto”, ai saggi su Flaubert e Gabriel Garcia Marquez.

Ma per chi vuole un particolare romanzo d’amore consiglio questo “Avventure della cattiva ragazza”.

“Non importa quanto sia effimero, un romanzo è qualcosa, mentre la disperazione non è nulla” ci dice Vargas Llosa, premio Nobel  2010 per la letteratura.

 

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SOGNANDO JANE AUSTEN A BAGHDAD

pubblicato da: admin - 6 Ottobre, 2010 @ 6:02 pm

scansione0001Un romanzo epistolare arrivato  da poco in libreria che sembra avvalorare le nostre riflessioni sulla conversazione scritta.

 Per puro caso  Bee Rowlatt, giornalisa della BBC vuole intervistare via mail una docente universitaria,  May Witwit che insegna letteratura inglese a Baghdad. La corrispondenza inizia il 17 gennaio 2005 con Bee che scrive: “…E’ da una settimana che cerco di contattare iracheni che conoscono l’inglese per intervistarli in vista delle elezioni che si terranno fra pochi giorni. Non sai quanto sono felice di averti trovato.”

Subito le due donne instaurano un rapporto spontaneo, affettuoso, aperto. Si raccontano la loro vita e molto presto anche  le  loro vicende più intime saranno condivise.

Bee ha due figlie ed è in attesa di una terza, vive a Londra che adora. May ha 46 anni, si è risposata da poco dopo essere rimasta vedova anni prima. Racconterà del suo matrimonio con questo  uomo  molto più giovane, sunnita, e di tutti i problemi per lei, sciita, legati sia alle famiglie di entrambi  che hanno condannato questa unione sia legati alla politica.

 Bee in una mail del marzo 2006 le chiede bruscamente “Secondo te dovrebbero andarsene tutti i militari? Le cose sono migliorate dopo l’invasione?” al che May risponde che stavano meglio col vecchio regime pur pieno di colpe. Ora hanno difficoltà a trovare tutto, ci sono continui black out, percorsi vietati, pericoli per i sunniti, docenti assassinati, insomma risponde “Oggi siamo solo un pezzo di terra sommerso dal sangue e dal caos…Ti prego” aggiunge “scrivimi, mi mancano la civiltà e la pace.”

 E prosegue  che per colmo d’ironia tiene anche un  corso di diritti umani e di educazione alla democrazia. 

May ci racconta delle sue studentesse che arrivano all’università velate, corrono in bagno per cambiarsi e truccarsi e poi si rivestono da capo a piedi per tornare a casa. Pur seguendo i corsi di letteratura inglese fanno fatica a entrare nelle psiche dei personaggi descritti. Per esempio, dopo la lettura de “La lettera scarlatta” di Hawthorne chiedono perchè il marito non abbia ucciso  moglie e amante invece di punire la peccatrice con l’obbligo di portare una  lettera A cucita sul petto !!!

E “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen? Non solo un’evasione  totale dalla realtà irachena, ma sempre uno spazio che può diventare proprio, una serenità razionale da conquistare  e sognare anche solo per un po’.

Il rapporto di amicizia cresce attraverso la conoscenza reciproca di grandi e piccoli avvenimenti tanto da diventare un appuntamento quasi quotidiano tanto è l’urgenza di comunicare.

Come il nostro blog?

May e Bee, pur vivendo in realtà così diverse,riescono  trovare il punto d’unione, quello della comunicazione più autentica.

Dal 2008  May Witwit vive in Inghilterra con il marito. Molti consigli e aiuto per lasciare la sua terra di “sangue e di caos” li ha avuti proprio da Bee Rowlatt.

Si incontreranno per il tè? Parleranno ancora come nelle e-mail di libri?

Come noi?

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L'ARTE DELLA CONVERSAZIONE, di Peter Burke

pubblicato da: admin - 5 Ottobre, 2010 @ 5:53 pm

“E’ come invitare un tedesco a bere una birra” direbbe mia madre a proposito dell’argomento conversazione  che mi intriga e mi sollecita a parlarne,  sia grazie alla divertente disavventura della  chat letteraria raccontata da Camilla sia perchè ripenso  ancora con piacere al meeting allargato  di domenica mattina.

Ricordo anni fa di aver notato  questo saggio di Peter Burke, devo averlo sfogliato, ma non lo comprai. Però so che parla proprio delle regole sociali antiche ed attuali, delle buone maniere che si dovrebbero adottare quando ci ritrova con gli altri, proprio per far diventare la conversazione un’arte, come direbbe  Oscar Wilde.

  Si parte  dalle regole del parlar cortese del Cinquecento, passando per le esagerazioni delle  Précieuses ridicules sino ai consigli  recenti per padroneggiare la base del nostro stare insieme. E per aiutare i più timidi.

 Sono andata a cercare su Internet qualcosa di più e ho trovato un esaustivo  elenco di passaggi per padroneggiare quest’arte! C’è anche un elenco di  Cose che serviranno per non sentirsi inadeguati. .. tra queste lucidità, delle espressioni facciali appropriate…e qualcuno con cui parlare!

Il primo passaggio è “Dimenticare se stessi”. Centrare gli interessi dell’altra persona e fare domande.

Terribile sarebbero  i  monologhi (che potrebbero addormentare o far vagare la mente dell’interlocutore) come lo sarebbe esclamare “Ma basta parlare di me. Parliamo di te. Tu, come mi vedi?”

Credo sia una frase di Woody Allen.

 Anche la gestualità ha la sua importanza, come la hanno certi silenzi o finta distrazione che denunciano  poca attenzione  o addirittura ostilità.

D’altra parte conversare in accordo pieno o disaccordo gentile e propositivo non sembra facile. Molto spesso noi mediamo,  non diciamo sempre esattamente o completamente ciò che pensiamo. Da questo lato è molto più sincera la conversazione virtuale. Scrivi e non sei  condizionato dall’altro. Ti senti più sicuro, puoi sviscerare fino in fondo l’argomento che ti sta a cuore. A me senz’altro viene più facile scrivere lettere, e-mail, blog perchè lascio fluire dalla mia mente e dal mio cuore ogni sentimento senza essere bloccata dal timore di ferire l’altro, o di essere troppo esuberante bloccando qualcun altro più timido o riservato.

Nella conversazione a tu per tu, gradevolissima, spontanea, viva, talvolta non si riesce ad essere se stessi al 100%.  Quando accade però si  prova un grande piacere.

Le conversazioni che più mi annoiano sono le formali, quelle in cui non si  parla di niente…E’ un mio difetto, sono impaziente… perchè anche il famoso parlare del tempo, come fanno gli inglesi, è sempre un approccio di simpatia.  Ma questo va  bene per l’incontro fugace non per ore ed ore..

Purtroppo ho ricordi di riunioni esteticamente deliziose, dove per riservatezza, educazione borghese d’altri tempi, si doveva rimanere sulle generali: pizzi e centrini, la “donna” delle pulizie, l’abbigliamento, le tappe obbligatorie della donna: fidanzamento, corredo, matrimonio, figli, garbati pettegolezzi chiamati però con un altro nome .

 Noia mortale, benchè abbia sempre apprezzato la gentilezza, le deliziose preziose tazzine da tè e i dolcetti cucinati superbamente. Ma il mio pensiero se ne andava . Io volevo parlare di libri, di arte, di vita, di sentimenti intimi,di gioie, di dolori,  di quello  di cui parlo  adesso attraverso  il blog o vis à vis  con le persone con le quali ho affinità elettive.

Insomma si può dire,  come ha scritto Camilla, che  anche l’uso di Internet può essere arricchente.

E a questo proposito anticipo già un delizioso libro basato sulla reale corrispondenza virtuale di due persone…

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