LUDVIG, di David Albahari
pubblicato da: admin - 7 Gennaio, 2011 @ 10:11 pm
E’Â per me il primo romanzo di uno scrittore serbo questo “Ludvig”, un intenso e drammatico monologo sul rancore o forse sull’irrisolutezza del proprio Io?
Certo che David Albahari  ci presenta in modo  chiaro un’ autodistruttiva crisi d’identità del protagonista narrante che incolpa di tutto un suo ex-amico, Ludvig.
Entrambi scrittori belgradesi, un tempo inseparabili, ora divisi da un odio incontenibile.
Non si può fare a meno di ripensare a Il soccombente di Thomas Bernhard dove due amici musicisti rinunciano alla musica e alla carriera  rendendosi conto del talento sovrumano del loro terzo amico, nel quale si ravvisa Glenn Gould quando interpreterà le Variazioni Goldberg.
Siamo nel mondo dell’arte, paradigma alto della nostra vita in generale? Se vitali sono il successo e la fama quanto può influire rovinosamente il fallimento?
Ludvig meno talentuoso dello scrivente del quale non abbiamo neppure il nome -come una sorta di  beffa del suo soccombere e cancellarsi  in toto – è un vanaglorioso, un prepotente e subdolo personaggio che riesce ad irretire da esperta star mediatica il pubblico. Riesce a condurre i lettori a credere ciò che egli vuol far credere di sè, cioè che egli è il migliore, è colui che ha cambiato la letteratura di Belgrado, è un vincente. E’ stato invece il narratore che ha creato e dato le nuove idee  letterarie a Ludvig, che lo ha aiutato a diventare famoso e  che subito dopo   è stato tradito ed  emarginato dall’intellighenzia belgradese. E’ un perdente di talento ed il suo rancore, la sua rabbia verso Ludvig e verso una Belgrado un po’ kitsch che crede senza pensare troppo ai mass media e agli spavaldi lo fanno precipitare in una profonda  crisi creativa ed esistenziale.
Ludvig continua a schiacciarlo sadicamente con facilità , corteggia le sue debolezze, lo distrugge con eleganza. Durante una grottesca intervista televisiva ai due scrittori si stigmatizza per sempre il ruolo predominante di Ludvig e quello del soccombente narratore paralizzato dall’incredibile falsità di Ludvig.
Lo consola soltanto che il nemico, pur più giovane di alcuni anni, sembri più vecchio di lui “Gli sta bene, è giusto che sia vecchio come una suola consunta, come un uovo marcio, come un ciottolo levigato in un torrente di montagna”.
Un monologo ininterrotto che invita a una  lettura quasi senza respiro. Le pagine si susseguono senza alcun breve spazio  bianco.Â
 Si narrerà dell’acquisto di una pistola e dell’appropriazione indebita di un libro mai scritto.
In questo incalzante  intreccio Belgrado appare “feroce e umanissima”, prepotente e millantatrice,  una cornice perfetta per questo “gioco” perverso che talvolta sembra persino irreale.
Ma lo scrivente è obiettivo nella sua apologia dell’Odio?
O è ottenebrato dal rancore e dalla sua incapacità di fronteggiare il traditore  più astuto, subdolo e aggressivo di lui? E’ forse solo odio verso se stesso per la propria inadeguatezza o mancanza di coraggio?
David Albahari è nato nel 1948 nel Kosovo, da famiglia ebraica. Ha vinto moltissimi premi letterari e da anni vive in Canada.
Questo suo breve e forte romanzo ci invita a riflettere sulla nostra personale battaglia per raggiungere l’equilibrio, l’accettazione di noi, un’obiettiva e serena autostima.
 Viene da chiederci : riusciamo a non tener conto degli altri?
Talvolta succede di incontrare persone che ci fanno apparire peggiori di ciò che siamo, che ci sollecitano sentimenti negativi.
 Che fare in questi casi? Fuggire? Affrontare? “Sollevarsi?”
Il pericolo è come succede al protagonista, quello di farsi fagocitare da un Odio quasi vitalizzante nella sua distruttività .
Scriveva Thomas Eliot degli uomini che non smettono mai di masticarsi dentro “quelli che all’interno hanno soltanto cavità , che si divorano dal di dentro finchè non rimane più niente, e allora vanno in giro come scheletri, involucri che camminano.”
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I PONTI DI MADISON COUNTY, dal libro al film
pubblicato da: admin - 6 Gennaio, 2011 @ 8:46 pm![cop[4]](http://trentoblogcommunity.com/unlibroalgiorno/files/2011/01/cop4.jpg)
Di che cosa scrivere oggi, dopo i  bellissimi e lusinghieri  commenti che avete fatto al mio post su Banville?
Già qualcosa mi serpeggiava stamattina mentre bevevo il caffè. Ripensavo al film visto ieri sera “Gosford Park”. Ma non è stato tratto da un romanzo. E per ora fino al giorno della fine della  mia sfida “un libro al giorno” devo parlare di un libro.
 Poi, come suggerisce Raffaella, mi piacerebbe ampliare le nostre riflessioni anche al cinema o ad altre forme d’arte che  potranno suggerire nuovi pensieri esistenziali  da condividere…
Ed ecco che  proprio ora,  mentre stro scrivendo, la Tv trasmette  il romantico film “I Ponti di Madison County” tratto dall’omonimo romanzo di Robert James Waller che io lessi durante un’estate di tanti anni fa. Credo di saperlo a memoria: la storia d’amore tra Francesca sposata ad un agricoltore della Iowa e Robert Kinkaid, fotografo del National  Geographic Magazine, è una storia che fa sognare. Un amore che dura soltanto cinque giorni ma che è intenso e perfetto. Un amore utopico. O forse no?  Dolcezze reciproche, rimpianti di non essersi incontrati prima, consapevolezza che loro due sarebbero state le perfette due mezze mele. Ma il senso del dovere, l’amore per i figli e la tenerezza per un buon marito faranno sì che Francesca rinunci al suo Sogno. Lo racconta però  in un diario che verrà scoperto, dopo la sua morte, dai figli. E’ ciò che lei desiderava: che la sua storia del Grande Amore venisse finalmente riconosciuta come parte di se stessa.
Ricordo che fu Bruna, la mia amica più “grande” a prestarmi il romanzo ed insieme sulla sua terrazza ligure  piena di fiori e farfalle, sorseggiando la sua bevanda al sambuco, parlavamo dell’amore romantico così perfetto da sembrarci una chimera.
Se poi in quei giorni  mi capitava di discutere con Piero gli dicevo arrabbiata ” Vorrei tu fossi come Robert Kinkaid!” . E lui mi guardava stupito con i suoi profondi occhi da principe arabo e senz’altro avrà pensato che in quel momento agisse in me “il gemello scemo” ( Sono del segno dei Gemelli)!
Il film è struggente, fa piangere come il libro, gli attori sono superbi. Meryl Streep e Clint Eastwood, un po’ appassito, ma sempre intrigante.
 In realtà volevo parlare di “Gosford Park” ,un film del 2001 diretto da Robert Altman che si ispira al romanzo giallo  deduttivo della tradizione inglese,  la parte dell’omicidio sembra tratta da un romanzo di Agatha Christie. Ma la storia è nel complesso una denuncia  del rigido sistema di classi dell’Inghilterra inizio Novecento.
Siamo in una bellissima villa della campagna inglese esattamente nel 1932 quando i proprietari invitano per una battuta di caccia moltissimi ospiti con le loro cameriere e valletti personali.
L’intreccio svela intrighi e relazioni sessuali anche fra nobiltà e servitù. Compare persino un personaggio realmente esistito, l’attore Ivor Novello.
Film bellissimo, ma amaro e che fa ribollire di sdegno chi desidera (e desidera ancora invano) l’uguaglianza.
I ruoli sociali inglesi dell’epoca, in questa descrizione di  inizio declino dell’impero britannico, sono oggigiorno  finalmente  scomparsi?
 I privilegi ostentati per cui c’è bisogno per sentiri fortunati e “migliori” di avere vicino persone subordinate da vessare mi fanno ribollire.
Le nobili e ricche dame che si fanno servire il tè in macchina dalla piccola cameriera che per questo rimane sotto la pioggia scrosciante mi fa andare su tutte le furie. E qual è il discorso predominante di tali “Gentildonne”? Proprio la Servitù.
Stamattina durante la Rassegna stampa di Radio Tre sentivo chiedere dov’era, se mai c’è stata, la famosa Uguaglianza…
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IL MARE, e la profondità della vita
pubblicato da: admin - 5 Gennaio, 2011 @ 8:10 pm
Affrontare un romanzo di John Banville è immergersi in più strati di emozioni, suggestioni e spesso pericolose rivelazioni anche per il Lettore. Banville riesce con la sua prosa che indulge in virtuosismi affascinanti a portarci nei nostri più intimi recessi.
Il mare non è solo quindi il luogo di una fondamentale esperienza adolescenziale del protagonista, ma rappresenta , a mio parere, il mistero dell’abisso, l’indistinto dal quale proveniamo e nel quale ritorneremo.
Max Morden è un vedovo, ormai anziano, che cerca di fuggire dal dolore della morte della moglie, della malattia, dei progetti sospesi e tenta tornando nel luogo mitizzato della sua adolescenza di ritrovare parte di se stesso.
I ricordi arrivano vividi anche se ormai non corrispondono più,  ormai lo “sguardo” è diverso. Morden passeggia ancora sulla spiaggia dove tanti anni prima una giornata particolare ha segnato fortemente le sue vacanze d’allora. Tutto girava intorno all’affascinante ed ambigua famiglia Grace. Da un’iniziale attrazione sensuale per la madre Claire , all’innamoramento per la figlioletta Chloe . Pagine degne di un pittore la descrizione del pic-nic con la famiglia Grace: verdi declivi, ombre di pini, pennacchi di nuvole di mare, rami lambiti dal sole , un’atmosfera di primi turbamenti sessuali “Tuttavia, quella giornata di licenziosità e allettamento proibito non era ancora conclusa. Mentre la signora Grace, distesa là sul declivio erboso…”
Tutto attrae in modo morboso il giovane Morden, il gemello di Cloe, Myles muto e  dai piedi palmati, la giovane governante Rose, il signor Charles che, sornione, come un Poseidone attento, controlla la vita dei suoi familiari.
Ma qualcosa di terribile accade in quell’estate. Una morte segnata da un  oscuro segreto che Morden cerca adesso, tornando sul luogo del passato, di risolvere insieme ai suoi mille nodi esistenziali cristallizzati.
Sembra che la sua vita inizi da quella lontana vacanza al mare e termini ora nella consapevolezza della vecchiaia che incombe. Quasi che la sua vita in mezzo a questi due periodi sia stata ibernata.
Insomma il tempo  passato e quello presente viene  “tirato” come un elastico, il ricordo di ciò che si è vissuto va di pari passo con la metacognizione che tutto non dura e che forse ciò che si ricorda non si è vissuto veramente tutti protesi ad analizzare che tutto passa e forse non esiste.
“E perfino anni prima di questo, mentre per esempio stavo con la signora Grace in quel soggiorno illuminato dal sole, o sedevo insieme a Chloe al buio del cinematografo, ero e non ero lì, me stesso e spettro, imprigionato nel momento eppure in qualche modo sospeso, sul punto di partire. Forse tutta la vita non è altro che una lunga preparazione a lasciarla.”
Eccezionale Banville che come un giocoliere mescola parole e suggestioni in modo magistrale, e come tale riesce anche ad incantare noi Lettori che sprofondiamo  insieme a lui dove ci vuole portare.
Adoro gli scrittori che scavano, ci punzecchiano, ci sollecitano a riflettere sulla vita, sulla morte, sulla vecchiaia perchè tutto ciò è VITA. Non mi piace rimenere sempre in superficie, adoro tuffarmi anche se rischio di affogare.
* * *
Come feci tanti anni fa in Corsica. Non sapevo ancora nuotare. A quel tempo avevo accompagnato un gruppo in vacanza (eh, sì ho fatto anhe l’accompagnatrice turistica!)
Ebbene nella bellissima piscina dell’albergo un certo Alfredo mi disse che se mi fossi buttata , anche senza saper nuotare, sarei ritornata  a galla. Io credo generalmente a quasi tutto quello che mi dicono: mi buttai quindi  immediatamente nella parte più profonda, ma non venni  a galla. Non era  acqua di mare. Mi rivedo annaspare  con il mio costume arancione nel fondo della piscina blu.
Meno male che l’Alfredo si buttò repentinamente e mi ripescò. Subito dopo imparai a nuotare, solamente  a rana, ma almeno ora riesco a stare a galla.
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IL SIGNOR MANI, di Abraham B. Yehoshua
pubblicato da: admin - 4 Gennaio, 2011 @ 8:42 pm
Pietro Citati ci presenta questo capolavoro così ” Il signor Mani rappresenta il grande corpo sensuale dell’ebraismo, profumato di spezie e di disperazione…Uno dei libri più belli della letteratura contemporanea.”
Si snoda in cinque dialoghi a volte con parti mancanti perchè parte della conversazione è fatta al telefono. Sta al lettore agire, diventare attivo e partecipare al detto e al non detto.
Ci sono tanti signor Mani in questa saga familiare che racconta di cinque generazioni di ebrei: dal patriarca Abraham vissuto ad Atene nella metà dell’Ottocento al giovane soldato Efraim che combatte in Libano nei primi anni Ottanta. Attraversiamo così due secoli di storia ebraica ed insieme ai protagonisti ci poniamo il quesito se un uomo può spezzare la catena che lo lega al passato e al futuro o ancora se si può annullare la propria identità .
Perchè presento questo libro? Perchè domenica sono andata a trovare il signor S., un ex-alunno adulto che ha seguito il mio corso di alfabetizzazione. Ne avevo parlato in novembre.
Ebbene il signor S. con il suo fisico minuto e asciutto, la barbetta grigia, il cappelluccio che indossa per uscire, i suoi occhi brillanti di intelligenza mi riporta alla mente il classico ebreo russo. Ed invece il signor S. è cristiano ortodosso,  georgiano e fierissimo di esserlo. Certamente non succederà come nel romanzo che si chiederà se può “dimenticare di essere …georgiano.”
Il suo orgoglio si palesa nelle cartine attaccate al muro , nel sottolineare che la sua lingua è unica, con un suo precipuo alfabeto scritto  che non ha niente a che fare ne’ con il cirillico ne’  con il nostro.
Entrare nella sua casa semplice e decorata con alcune palline natalizie, la bandiera della Georgia, essere accolti da lui con il baciamano, da sua moglie N. con abbracci è stato per me, Stefania e Marco entrare in un mondo diverso o forse solo  dimenticato. La semplicità del calore e  della spontaneità generosa, dell’amicizia aperta che  spinge a raccontare molto di sè , ci hanno avvolti ed incantati.
La tavola imbandita di pizza georgiana, (ottima focaccia con formaggio), torte varie e poi in rapida successione caffè e tè hanno accompagnato il loro desiderio di comunicare, di spiegarci perchè si trovano in Italia. Meglio l’Italia piena di storia che gli U.S.A. che non ne hanno, meglio il Trentino piuttosto della Sardegna perchè… – e qui abbiamo riso parecchio nonostante l’italiano stentato del signor S. –  perchè i sardi sono troppo piccoli.
Nel frattempo ci veniva mostrato un video della festa sontuosa per il compleanno della nonna a Tiblisi dove abitavano. La signora S. bellissima e florida leggeva una sua  poesia sulla rosa in georgiano e tutti apparivano belli e felici. Chissà perchè sono arrivati qui.
Questo non ci è stato raccontato esattamente.
Ciò che abbiamo ricevuto è stato un calore di altri tempi, vero, prezioso. Ed un intendimento rapido, senza sovrastrutture, percepito negli sguardi intensi,  franchi e  coraggiosi di questa coppia che nella sola mezz’ora di preavviso della nostra visita aveva preparato quasi un banchetto.
BRIEFE AN MILENA, di Franz Kafka
pubblicato da: admin - 3 Gennaio, 2011 @ 8:20 pm
La prima  vera lettera che Franz Kafka scrisse a Milena Jesenka Polak è datata aprile 1920 e reca l’intestazione della Pension Ottoburg di Maia Bassa, Merano.
Quante persone celebri hanno soggiornato nella mia città natale!
Ci pensavo ieri mentre con Stefania e Marco passeggiavo in un luminosissimo Lungo Passirio verso il Tappeiner e le Gilf.
Ricordo anche che mio padre diceva con orgoglio di avere un giorno aspettato l’autobus con Ezra Pound! Â
Parlo dunque di questo libretto acquistato a Monaco di Baviera quando cercavo di imparare il tedesco. Le prime pagine hanno appunti, traduzioni di parole, le ultime invece sembrano intonse. Probabilmente la lettura della corrispondenza devo averla conclusa in italiano.
 Franz e Milena si sono visti poche volte, ma ciò che si scrivono nelle tantissime lettere è molto intenso. Kafka giunto a Merano per curare in un clima più mite di quello di Praga la propria tubercolosi scrive subito due lettere a Milena, la giovane ceca che si era offerta di tradurre i suoi racconti.
L’aveva vista soltanto una volta nell’ottobre del 1919, ma da subito egli le  si rivolge con rapidità e naturalezza, come se l’avesse conosciuta da sempre. Kafka le confida i grandi segreti della sua vita: la tubercolosi, la spiegazione psicologica della tubercolosi “Sono malato di mente, la malattia polmonare è soltanto uno straripare della malattia mentale.”, il Processo al quale si era sottoposto, i suoi fidanzamenti, il suo senso di colpa.
Nelle lettere le due anime si accendono di “passione”, la divisione li tiene uniti più che la vicinanza.
Così Kafka nella sua piccola camera d’albergo di Merano o quando si affaccia al balcone vede Milena nelle nuvole, sente la sua vicinanza “…Lei è qui esattamente come me e più ancora; dove sono io è Lei, come me e più ancora”.
Per Kafka Milena diventa presto “la Madre”, nella realtà e molto nella sua immaginazione essa incarna tutte le qualità materne desiderate: l’equilibrio, la calma, la fiducia , la chiarezza, la forza di verità , l’intelligenza chiaroveggente, la dolcezza che allontana la sofferenza. Ma presto diventa anche la figura simbolica opposta: la casta luna, irraggiungibile nella sua lontananza, la fanciulla vergine, la Bella – opposto a lui, oscuro “animale dei boschi”-.
Insomma la loro relazione per lo più epistolare si trasforma in timore, gelosia,angoscia. Kafka non riesce a gestire un tale rapporto. Milena stessa non riesce con lui ad essere ciò che la stabilizzante Lou Salomè fu per Rilke.
Kafka, forse da sempre  Gregor Samsa, ha “nostalgia di qualche cosa”, di “un nutrimento sconosciuto” ” Sporco sono, Milena, infintamente sporco“. Si sente vivere nell’oscurità , nel sottosuolo. Milena , la Bella, è la sorella di Gregor Samsa, colei che gli porta il cibo, in una comunicazione silenziosa.
E neppure la dolcezza di Merano, dei suoi alberi, delle sue acque chiare consolano il più enigmatico scrittore della cultura del Novecento.
Io, invecee, ieri ero nel luogo della mia infanzia e della prima giovinezzza. Ho rivisto il caro cugino, mi sono immersa in quella luce algida d’inizio Gennaio, assaporando al sole, il breve tremito delle palme e dei cespugli. Il Kursall color dell’oro si stagliava nell’azzurro limpido, la principessa Sissi in ombra aveva sempre intorno giovani ammiratrici, la Winter Promenade ha regalato bellezza e ricordi.
E al ritorno verso casa, una sosta ad Egna, magica nel suo silenzio ghiacciato e una visita a due persone speciali…che ci hanno aperto la casa con un calore spontaneo di altri tempi e d’altri luoghi.
Ma di questo parlerò un altra volta insieme al libro che si è automaticamente collegato a ciò…
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SOSTIENE PEREIRA, di Antonio Tabucchi
pubblicato da: admin - 2 Gennaio, 2011 @ 8:30 pmRiccardo ci invia un post dedicato ad un bellissimo libro tradotto in un altrettanto magnifico film.
Feltrinelli Editore
Prima Edizione 1994 – Trentacinquesima edizione, 2010
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1993, viene scritto il libro, che poi esce nel 1994.
1995: il film diretto da Roberto Faenza, l’ultimo di produzione italiana con Marcello Mastroianni.
Antonio Tabucchi ha conosciuto il personaggio nel 1992, a Parigi dove era esule un giornalista portoghese sfuggito alla rappresaglia del dittatore Salasar. Il nome Pereira è una creazione di Tabucchi. Significa “Albero di pere†e in Portogallo è indice di origine ebraica, come da noi lo sono i cognomi di città .
Quasi “un borghese piccolo piccolo†(Film di Mario Monicelli, 1977) che si convince di possedere una confederazione di anime, gestita di volta in volta dall’ “io egemone†che prende il sopravvento, per azione improvvisa o per lenta corrosione, sull’io egemone precedente. E come il borghese piccolo piccolo Alberto Sordi, alla fine l’ultimo suo io egemone si ribella all’ingiustizia, sia pure in modo non altrettanto cruento ma sicuramente molto più efficace e coraggioso di quanto non abbia fatto il personaggio del film di Monicelli.
La prosa è come il carattere del personaggio: mite, un po’ grassoccio, abitudinario, un po’ qualunquista, forse, all’inizio, teneramente innamorato della sua moglie morta da tempo, che colloquia con la fotografia della consorte. La prosa, dicevo, è semplice, intervallata da quel “sostiene Pereira†o semplicemente Pereira “sostieneâ€, che è diventato parte del lessico familiare di noi lettori. E Pereira quel “sostiene†lo proclama di fronte alla Storia e a ciascuno di noi.
Con delicatezza, con colori diafani, vediamo Lisbona e respiriamo l’aria dell’oceano, beviamo insieme a Pereira una limonata fresca, mangiamo con lui al tavolino di un caffè ristorante, crediamo che la storia e la Storia possano finire in modo incruento, semplicemente perché – insieme a lui – la ignoriamo. Sotto questo aspetto il libro è anche un piccolo giallo, anche perché, alla fine, nel poscritto dell’autore, capiamo che forse il romanzo non è poi tanto tale, quanto piuttosto una storia vera.
La ribellione alla dittatura, al “ti dico io cosa devi pensare e scrivereâ€, al “non preoccuparti, pensa a tutto Lui, il regime, il sistema†…la ribellione, dicevo, a cose che sembrano – ma non sono, ancor oggi almeno in certe zone del pianeta – d’altri tempi …
La morale che se ne trae è che ognuno di noi, per quanto “piccolo†può e deve ribellarsi all’ingiustizia, alla sopraffazione, all’omologazione, alle organizzazioni fondate su grandi numeri, su eserciti ben organizzati, su gestioni politiche fondate su troppo consenso, se non altro perché, almeno statisticamente, il male può facilmente annidiarsi all’interno dei grandi numeri organizzati, molto più facilmente di quanto non possa nascondersi all’interno di sistemi diversificati e dialettici.
Poco più di 200 paginette, da leggere, da gustare, sulle quali riflettere. Di queste paginette, Lalla Romano scrive: “ E’ possibile che un libro metta a disagio perché e troppo bello? Troppo, non perché sia sospettato di “voler piacere†ma proprio nel senso che si fa amare senza riserve …â€
Riccardo
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FANTASMI, di Vincenzo Cerami
pubblicato da: admin - 1 Gennaio, 2011 @ 7:49 pmMa chi sono i fantasmi di Cerami? Sono i finti compagni, le persone costruite con la  “carta”, maschere pirandelliane  che sembrano aggirarsi nel mondo di Morena, la protagonista in fuga alla ricerca di verità e libertà interiore. In questo suo viaggio verso l’anelante sua Itaca, il porto sicuro, il luogo fisico e mentale adatto al suo Essere, Morena si inventa nuove identità , diventando così essa stessa “una, nessuna, centomila,  vagola di casa in casa, di quartiere in quartiere di una Roma pasoliniana, di città in città .
Fugge dai fantasmi del passato, dal padre, un geniale compositore, dalla madre suicida, dal compagno artista, assolutamente Narciso, che non riesce a mantenere un contatto con lei, forse dal fantasma che è in lei che non ha ancora raggiunto la sua Identità .
Altri personaggi attraverseranno le mille strade che Morena percorre nel suo Viaggio. Insieme a lei capiremo quante possibilità esistono in una sola vita e quanto coraggio occorre per provarne alcune.
Il romanzo, secondo classificato al Premio Strega del 2001, è strutturato in quattro capitoli, quattro movimenti come in una Sinfonia.
 Dall’esposizione della situazione di Morena che ha vissuto amori troppo cerebrali che non soddisfano le sue esigenze allo sviluppo della sua Fuga in un’ epoca, la nostra, mutevole e conflittuale, in cui disperatamente ricerca se stessa e un senso da dare alla propria vita.
 Ripresa del suo apparire e scomparire come un fantasma fino alla risoluzione. La sua solitudine è il punto di partenza per la ricerca del luogo reale e mentale in cui finalmente fermarsi.
E noi stessi in certi momenti della nostra vita non ci sentiamo un po’ fantasmi? per esempio quando materialmente siamo in un luogo, ma la nostra mente e il nostro desiderio sono altrove? Quando non ci sentiamo “centrati” in un momento esistenziale?
La lezione caparbia di Morena è quella di non arrendersi. Pur tra difficoltà , drammi, angosce bisogna proseguire fino in fondo per trovare la Libertà , per giungere in un mondo nuovo non più governato dagli Altri,  ma in quello che noi abbiamo compreso e conquistato.
Vincenzo Cerami ha esordito nel 1976 con Un borghese piccolo piccolo.
Questo particolare romanzo è stato criticato senza mezze misure: o è piaciuto moltissimo o per niente.
Naturalmente io rimango sempre affascinata dall sfaccettature delle personalità inquiete, quelle che cercano il “proprio abito interiore”, quelle che fanno di ogni giorno un cammino per arrivare in un altrove che si spera sempre sia la “desiderata Itaca.”
E quale migliore proponimento nel primo giorno del 2011 quello di sollecitarci ad andare “sempre a caccia della Vita“?
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POESIE, Soledades di Antonio Machado.
pubblicato da: admin - 31 Dicembre, 2010 @ 11:52 pmPer l’inizio di un nuovo anno cosa c’è di meglio che affidarsi alla Poesia,  il linguaggio che va dritto al cuore?
Questa raccolta di Antonio Machado, il grande poeta spagnolo maestro di Garcia Lorca, sembra comunicarci l’impossibilità di comunicare con l’altro. Troviamo però già addentrandoci nei Campos de Castilla un superamento del soggettivismo lirico fino a raggiungere ciò che scrisse di lui Josè Maria Valverde come sottotitolo dell’intera opera poetica del poeta sivigliano: “Dall’Uno all’Altro“, dove l’Uno rappresenta l’Io, il romantico individuo che dal suo mondo intimo e malato si apre al colloquio con l’Altro, cioè con il mondo esterno.
In Machado i messaggi sociali assumono una valenza profeticamente amara, ma in lui serpeggia sempre quella poesia popolare di “eterna umanità ” accessibile a tutti. Questa poesia è l’unica forma possibile per non restare chiusi in se stessi” e morire a poco a poco, ma aprirsi agli altri”.
Ma anche immagini evanescenti del mondo di Castiglia, paesaggi amatissimi delle “Rive del Duero”, le fonti nel parco, i limoni nel patio e la noria più volte presente.
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Ecco dell’immensa sua opera alcuni stupendi versi
Languido il limone tiene sospeso
un incolore ramo polveroso
sull’incanto della fonte limpida,
e lì in fondo sognano
i frutti d’oro…
*Â Â *Â Â *
S’è addormentato il mio cuore?
Alveari i miei sogni,
niente più lavoro? E’ secca
la noria del mio pensiero,
i secchielli sono vuoti,
nel girare, pieni d’ombra?
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E’ la noria la ruota idraulica che solleva l’acqua sfruttando la corrente. Parola che deriva dall’arabo vociare, zampillare <IV-‘-R>.
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No, il mio cuore non dorme.
Se ne sta lì tutto sveglio.
Nè dorme nè sogna, osserva
gli occhi chiari aperti,
segnali lontani, ascolta
in margine al gran silenzio.
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Mi piace pensare alla nostra vita che fluisce con l’acqua nell’acqua grazie a una spinta che la fa scorrere.
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E’ il 31 dicembre.
Abbiamo vissuto un anno intero. Da domani pagine bianche da riempire , pensieri nuovi, Â parole nuove…
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AUGURI A TUTTI
IL PRANZO DI BABETTE, dai racconti di Karen Blixen
pubblicato da: admin - 30 Dicembre, 2010 @ 8:10 pmAncora giorni festosi. Almeno io li percepisco in questo modo. Mi sembra di essere su una di quelle giostre lente e colorate, le vittoriane Merry goes round che talvolta si vedono nelle piazzette in occasione di qualche festività .
Mi piace osservare le persone sorridenti, incontrare amiche che vedo raramente, ricevere e-mails, bigliettini, regali, organizzare pranzetti con i miei cari, cinema e aperitivi con le amiche,  e sentire in fondo al cuore che se riusciamo ad avere momenti belli e lieti vuol dire che questi  potranno sempre  esistere ed essere ricreati.
La fine di un anno poi mi sollecita generalmente gioia perchè ho da ripensare a tante giornate vissute (scelgo naturalmente le più belle!) e assaporo con fiduciosa speranza le altre che mi si parano innanzi come in  una pagina bianca.
Penso ai preparativi per cenette e cenoni di fine anno e ricordo allora  il capolavoro del Pranzo di Babette.
 Il sapore prezioso del convivio.
Questo bellissimo racconto, tradotto in modo magistrale in un film che vinse l’oscar, è inserito nella raccolta “Capricci del destino” del 1958.
Siamo alla fine del XIX secolo in Norvegia (in Danimarca nel film)  dove due sorelle conducono una vita semplicissima e devota. Sono figlie di un Reverendo, ormai deceduto, che aveva fondato una piccola comunità religiosa improntata alla severità di costumi, alla preghiera e all’aiuto reciproco. Sono ormai due lietamente rassegnate  signorine di mezza età la cui vita si volge al mantenere vivi i dettami del padre.
Quando erano ancora giovani e belle, circa trentacinque anni prima dell’arrivo di Babette, le due signorine erano state ardentemente ammirate una da un cantante lirico, l’altra da un affascinante militare. Ma la loro educazione, la loro purezza e il loro riserbo avevano troncato sul nascere i dolci sentimenti suscitati nei due giovanotti.
E poi arriva Babette, una vedova francese costretta a fuggire dalla Francia dopo i disordini della Comune di Parigi. Ha lasciato ogni suo avere, è disperata. Chiede alle due signorine ospitalità in cambio dei suoi servizi in casa.
La vita prosegue così nella parca semplicità di costumi e cibo tra molte riunioni religiose con i pochi abitanti del villaggio tra i quali talvolta serpeggiano malcelati e antichi rancori.Â
Il destino capriccioso farà vincere a Babette una grossa somma grazie  a un vecchio biglietto di una Lotteria acquistato prima della fuga. Babette non può ritornare in Francia pena l’arresto. Che fare dei soldi che riesce ad avere grazie a naviganti che fanno la spola tra Francia e Norvegia?
Babette che un tempo era una famosa cuoca in un elegante ristorante di Parigi vuole donare con tutti i suoi soldi (e li spenderà tutti) alle generose, semplici, pure signorine …la Gioia, il Piacere e il Gusto della vita cucinando per loro.
Chiede loro di organizzare un pranzo in ricordo del Reverendo Padre per tutta la comunità . Le due quasi ascete donne le danno carta bianca non immaginando ciò che la cuoca sopraffina ha in mente di cucinare. Questa si fa arrivare ostriche, tartarughe, quaglie, champagne pregiato ed ogni altra preziosissima leccornia.
Regina nella piccola e povera cucina, aiutata da un “garzoncello scherzoso”, Babette in un’apoteosi di creatività cucinerà e farà servire un pasto pieno di meraviglie. Il caso, il capriccio del destino, fa sì che a tavola arriverà anche, come lontano parente, il giovane militare, ormai anziano generale, ammiratore di una delle due signorine.
E’ proprio lui che lentamente, nel crescendo del pranzo riconoscerà delizie assaggiate soltanto in un famoso locale parigino. Dal brodo di tartaruga, alle “quailles en sarcophage,” alle ostriche, ai dolci, ai vini prelibati adatti ad ogni portata. Lui è un intenditore ed asssapora con passione sensuale ogni boccone.
E gli altri non adusi a simili piaceri? Quasi diffidenti assaggiano le prime portate, lanciandosi ancora le piccole frecciate dei loro rancori, e poi… i sorrisi si allargano, le gote si arrossano, gli occhi diventano lucidi di piacere, di delizia, di tolleranza.
Tutto ciò che era compresso nella rigida vita quasi monacale si libera in emozioni e meraviglia. E il Cibo, il Vino, questi doni della vita operano il miracolo della gioia dello stare insieme. La condivisione del piacere.
Sappiamo che Babette ha speso tutti i soldi vinti ma, deus ex machina di un tale “miracolo”, essa ha ottenuto un’altra vittoria. Ha regalato Felicità .
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DONNA AL PIANO, e la musica della vita
pubblicato da: admin - 29 Dicembre, 2010 @ 9:12 pmCatherine MacKenna è innanzitutto una musicista . Poi di lei si può dire che è irlandese, che ha lasciato la famiglia troppo repressiva nel loro bigotto cattolicesimo, che ha avuto da poco una bambina da un uomo che ha dovuto abbandonare perchè alcolizzato violento. E che è depressa.
Ma Catherine è una musicista, una compositrice e tutta la sua vita, dalle gioie, al dolore ed ora nella depressione, ha un ritmo.
 Credo che per commentare al meglio questo romanzo di Bernard Mac Laverty, finalista al Booker Prize 1997, ci vorrebbe una musicista (Stefania? Cristina?) perchè così la sua “conquista” sarebbe totale.
Che piacere comunque, anche per me, sentire parlare di musicisti, opere, strumenti. Leggere di Vivaldi, che pur essendo sacerdote, nella Venezia del Settecento, non disse mai la messa. A lui bastava la musica e mise in piedi un’orchestra di orfanelle, tutte vestite di bianco, che diventarono la migliore orchestra di Europa.
 Un esperimento meraviglioso simile  a El Sistema adottato ora in Venezuela
Bernard Mac Laverty ci porta aventi e indietro nella vita di Catherine. Inizia quando lei parte da Glasgow dove abita con la figlioletta Anna di poco più di un anno, per tornare a Belfast, la sua città natale, per il funerale del padre.
Catherine è depressa, ha avuto un periodo difficile nell’accettare la presenza costante della piccolina mentre tenta di rimanere a galla grazie alla musica, ha abbandonato l’isola dove viveva con  il padre della bimba, deve riallacciare un rapporto profondo ma difficile con la madre che ancora non sa della bambina.
Tutto ciò che rivive in ricordi, ossessioni, depressione, timori è scandito da un suo ritmo interiore che verrà esplicitato  con una matita n.3 su pentagrammi. Talvolta è terrorizzata dai cattivi pensieri di astio verso la bambina che la limita e che la costringe a ripetere giorno dopo giorno le stesse azioni, come nelle Vessazioni di Eric Satie, pezzo per pianoforte che dovrebbe  essere suonato 840 volte consecutivamente.(!)
Ma la depressione post partum e la sua crisi esistenziale si risolveranno. Bellissimo l’incontro a Belfast, dopo il funerale del padre, con la sua antica insegnante di pianoforte che ha sempre riconosciuto in lei un grande talento. Si legge con estremo piacere la loro deliziosa conversazione. Catherine spiega alla signorina Bingham che vorrebe comporre semplici pezzi musicali, come fossero  degli haiku dedicati ai dipinti di Vermeer e alle sue donne rinchiuse nelle stanze. Un suono come un colore. Le anticipa il desiderio di comporre un’opera per “Trombettisti e trombonieri”.
Il rapporto con la madre lentamente si risolve nel ripensare al parto che rivive e rielabora  durante il viaggio di ritorno dalla sua bambina. Comprende quindi la meraviglia della creazione e della procreazione della vita.
Sente che il ritmo della vita di una donna è sincronizzato con la luna e la luna è sincronizzata col mare, dunque la donna è sincronizzata con la marea.
E la Suite che sta terminando su commissione  per un evento importante è nata durante una passeggiata con la piccola Anna lungo la spiaggia dell’isola. La sua opera si chiama “Veronica” come la medaglia dei Pellegrini medievali di Chaucer che andavano verso Canterbury.
Insomma un romanzo pieno di religiosità , di conflitti d’amore e soprattutto di creatività : la creatività artistica, ma anche la procreazione.
Mi rimane un po’ di rimpianto di non essere musicista. Avrei apprezzato molto di più questo romanzo in cui il suo ritmo d’urgenza”, le sue citazioni, i suoi rimandi avrebbero completato il mio pacere di Lettrice.
Eppure per alcuni anni ho seguito lezione di ipianoforte – “Ha delle manine delicate” diceva il mio Maestro a mia madre - ( ma non sono quelle che servono – occorrono mani forti e larghe). Evidentemente il Talento di mio marito e di mia figlia non mi ha raggiunto  per…osmosi!
Ma chissà ! La vita comincia dopo i 60…potrei anche mettermi a imparare nuovamente a suonare, visto che in casa ci sono due pianoforti!
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